| A tagliar le cose con 
                    l’accetta, e quindi con rassegnata approssimazione, le 
                    pratiche politiche possono essere distinte in due grandi 
                    famiglie: quella di chi vuol conservare l’esistente, e 
                    quella di chi intende cambiare la realtà. Questa seconda 
                    famiglia è sempre stata segnata dalle più grandi divisioni: 
                    convivenze instabili, separazioni, riavvicinamenti forzosi e 
                    divorzi. Certo, l’accetta non rende giustizia delle 
                    sfumature, a volte dirimenti a volte pretestuose, che pure 
                    esistono e caratterizzano il pensiero di tanti, ma è 
                    sufficiente a dare l’idea. Chi auspica una realtà diversa da 
                    quella che gli è dato vivere, a sua volta, e sempre con la 
                    medesima approssimazione, può pensare di riformare la realtà 
                    –li si chiama “riformisti”- o di rivoluzionarla –li si 
                    chiama “rivoluzionari”-. La distinzione non è capziosa: se 
                    la realtà può essere riformata, significa che si può 
                    indirizzarla verso forme più desiderabili; se invece 
                    riformabile non è, va rivoluzionata. Di qui nascono alcune 
                    delle lacerazioni più profonde della sinistra italiana: c’è 
                    chi ammette la possibilità di cambiare il mondo in uno 
                    migliore, e chi pensa che il mondo, così com’è, non può 
                    affatto migliorare, ed occorre allora ricostruirlo da capo, 
                    su più solide e giuste basi. In questo quadro, 
                    Masaniello è tornato, di Marco Di Lello, racconta 
                    l’esperienza peculiare, ma in certo modo paradigmatica, di 
                    Napoli: una grande città meridionale, forse la più complessa 
                    d’Italia, sospesa su di un’altalena tra la fatica del 
                    governare e una taumaturgia illusoria, tra riforme 
                    faticosamente razionali e un populismo che solo da lontano 
                    ricorda l’alternativa della rivoluzione. Il riformismo di 
                    Napoli, racconta il sottotitolo, è stato interrotto. Eppure 
                    la Napoli riformista di Di Lello è erede di un nobilissimo e 
                    lungimirante passato, che annovera uomini dello spessore 
                    politico di Giorgio Amendola e dell’attuale Presidente della 
                    Repubblica Giorgio Napolitano. Bassolino, che di una lunga 
                    stagione, partenopea prima e campana dopo, è stato 
                    protagonista, ha sempre mostrato una certa propensione al 
                    populismo, a toni da Masaniello, appunto. La sua capacità di 
                    chiamare a raccolta l’orgoglio dei concittadini, di 
                    mobilitarne le passioni, evocava il fascino dei capipopolo 
                    rivoluzionari. Ha provato a correggere la rotta in corso 
                    d’opera, inaugurando, negli anni, la cosiddetta politica del 
                    “passo dopo passo”, che però non ha condotto ad alcuna meta 
                    definita. Così, alla prova dei fatti, la passione si 
                    rivelava più vulnerabile della persuasione: non solo non 
                    c’era traccia della mirabile rivoluzione che molti 
                    attendevano, ma nemmeno è giunta una pragmatica, lenta ma 
                    almeno stabile opera di rimedi reali ai reali mali dei 
                    territori da lui amministrati. Complice una nutrita serie di 
                    errori (che Di Lello racconta da testimone, avendo a lungo 
                    ricoperto la carica di assessore nella giunta regionale), 
                    quell’esperienza, a metà tra riforma e furor di popolo, è 
                    stata vittima di un logorio che non ha lasciato riforme, ma 
                    solo una fatica già conosciuta. Una fatica gravosa per chi 
                    la riceve in eredità, quella di aver costretto Napoli e la 
                    Campania a cominciare da capo, a dover nuovamente avvertire 
                    la necessità di trovare un Masaniello, recentemente 
                    impersonato dal nuovo sindaco, ancora capopopolo e 
                    taumaturgo, De Magistris. Ecco il paradosso: a lasciare 
                    irrisolta la questione di come cambiare il mondo, si rischia 
                    di lasciarlo immobile, cioè di conservarlo. In ciò, Napoli è 
                    metafora dell’Italia intera, che più di una volta nella sua 
                    recente storia unitaria s’è lasciata incantare dal demiurgo. 
                    Abitudine già nota, e pericolosa nel suo slancio 
                    delegatorio. Chi delega, è vero, risparmia fatica rispetto a 
                    chi partecipa. Può rinunciare al controllo, al quotidiano 
                    esercizio della ragione critica. Ma rinuncia altresì ad 
                    influenzare scelte che pure su di lui ricadranno. E a tale 
                    rinuncia occorre opporsi, in nome dell’uguaglianza, della 
                    cittadinanza e della ragione. Che cosa opporvi, se non la 
                    paziente tessitura di riforme per un futuro possibile? Se 
                    non il migliore futuro possibile, almeno uno migliore di 
                    tanti altri possibili.  
                    
                    
                    
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