| La politica italiana è 
                    in queste settimane alle prese con il complicatissimo 
                    problema di trovare il suo quinto sistema elettorale 
                    dall’inizio della Repubblica. Finora abbiamo avuto quattro 
                    sistemi elettorali: il proporzionale quasi puro (1948-1992); 
                    il maggioritario misto (il cosiddetto Mattarellum, 
                    1993-2005); il proporzionale con premi di maggioranza (18 
                    tra Camera e Senato), soglie di sbarramento variabili, liste 
                    bloccate (il cosiddetto Porcellum, 2005-3 dicembre 2013); il 
                    nuovo sistema – con il quale dovremmo andare a votare se le 
                    Camere fossero sciolte prima dell’approvazione di una nuova 
                    legge - quale risulta dalla sentenza della Corte 
                    Costituzionale del 4 dicembre 2013 che ha dichiarato 
                    illegittimi sia i premi sia la lista bloccata, e consistente 
                    in un proporzionale con soglie di sbarramento e voto di 
                    preferenza (da aggiungere probabilmente con decreto in 
                    applicazione del dettato della Corte). Inutile dire che in 
                    ciò il sistema italiano non ha paragoni con nessun’altra 
                    democrazia occidentale al mondo, il che la dice già lunga 
                    sull’anomalia italiana.  Ma prima di 
                    scervellarsi per individuare e proporre l’ennesimo sistema 
                    elettorale, come fanno in troppi presunti esperti, occorre 
                    impostare – al di là delle tecnicalità – i termini culturali 
                    e storici della questione, giacché il sistema elettorale è 
                    solo uno strumento in vista di determinate finalità. Il 
                    punto è chiarire queste finalità.  Di norma, le finalità 
                    principali (oltre  ad altre secondarie) sono assicurare 
                    rappresentatività (tutte le principali correnti politiche, 
                    comprese le minoranze, si devono sentire rappresentate), 
                    governabilità(tramite la riduzione della frammentazione  
                    partitica), responsabilità (per esempio nel rapporto tra 
                    eletti ed elettori). Tra queste finalità occorre trovare un 
                    equilibrio, spostando il baricentro ora da un lato 
                    (rappresentatività) ora dall’altro (governabilità), secondo 
                    le esigenze di un paese in una data fase storica. Va da sé 
                    che non esiste un sistema elettorale ottimale in assoluto. 
                    Dipende dalle circostanze e dai contesti. E va da sé che il 
                    sistema elettorale può risolvere alcuni problemi ma non 
                    tutti, giacché per avere una democrazia come la si vuole in 
                    Italia – con alternanza, con il bipolarismo, con 
                    l’investitura diretta da parte degli elettori della 
                    maggioranza, del governo, del capo del governo e del 
                    programma, ossia una democrazia maggioritaria – non basta il 
                    sistema elettorale, ma entra in gioco tanto la forma di 
                    governo quanto il sistema dei partiti (che è poi la 
                    variabile più importante e decisiva), oltre che la cultura e 
                    le convenzioni politiche.  Troppi ingredienti 
                    perché li possa sostituire tutti una legge elettorale. Ed è 
                    proprio questo l’errore che si è compiuto in Italia: 
                    caricare la responsabilità di tutto, nel bene e nel male, 
                    sul sistema elettorale. Così tutti i mali della cosiddetta 
                    Prima Repubblica, riassumibili nel carattere bloccato della 
                    democrazia italiana, con l’assenza di alternanza e con la 
                    conseguente degenerazione partitocratica, sono stati 
                    addossati al sistema proporzionale, come la stagione dei 
                    referendum elettorali, peraltro utili per cambiare il 
                    sistema, mostra. Ora è storicamente accertato che 
                    l’impossibilità dell’alternanza e del bipolarismo non 
                    dipendeva principalmente dalla legge elettorale 
                    proporzionale (che pure aveva molte colpe, come il voto di 
                    preferenza multiplo) ma dal peculiare sistema partitico 
                    italiano, ossia dal pluralismo estremo polarizzato. La 
                    presenza di partiti antisistema (in senso anche tecnico), 
                    come il Msi e il Pci impediva, insomma, la competizione 
                    bipolare per il governo.  Oggi invece e al 
                    contrario, dal 1992-94, si vuole addossare alla riforma 
                    elettorale la salvezza dell’intero edificio della democrazia 
                    maggioritaria. Il che è assolutamente sproporzionato e al di 
                    là della portata riformatrice di qualsivoglia legge 
                    elettorale.  Quando Renzi, e 
                    acriticamente tantissimi altri con lui a destra e a 
                    sinistra, afferma che la nuova legge elettorale deve far sì 
                    che la sera delle elezioni si sappia il vincitore e si abbia 
                    il “sindaco d’Italia” enuncia semplicemente e 
                    demagogicamente semplici slogan, vuoti di qualsiasi 
                    corrispondenza alla realtà. Se il “sindaco d’Italia” 
                    significa un primo ministro eletto direttamente, come nei 
                    comuni, allora occorre cambiare la costituzione e la forma 
                    di governo esistente. Quanto alla certezza assoluta del 
                    vincitore, questa è una pretesa che in nessuna democrazia 
                    parlamentare si ha, anche nella patria del maggioritario 
                    puro come l’Inghilterra (alle elezioni del 2010 non c’è 
                    stato alcun vincitore con la maggioranza dei seggi) e nella 
                    patria del parlamentarismo razionalizzato come la Germania 
                    (nel settembre 2013 non c’è stato alcun vincitore con la 
                    maggioranza dei seggi). In entrambe queste democrazie 
                    maggioritarie gli elettori non hanno potuto scegliere i 
                    governi, ma sono stati il parlamento e i partiti a formare 
                    governi di coalizione (quindi post-elettorali).  C’è solo un modo per 
                    avere la certezza della maggioranza dei seggi in Italia: 
                    superare il bicameralismo perfetto (con due voti di fiducia 
                    della Camera e del Senato è sempre possibile avere due 
                    maggioranze diverse o non avere la maggioranza in una 
                    Camera); avere un premio di maggioranza tale da assicurare 
                    il risultato (ma qui c’è la sentenza della Corte che vi si 
                    oppone, bisognerebbe mettere una soglia ragionevole e qui si 
                    stanno sbizzarrendo i vari dott. Stranamore); superare il 
                    tripolarismo e mezzo (Forza Italia e alleati, PD e alleati, 
                    Movimento 5 stelle, Scelta civica e centro) dell’attuale 
                    sistema partitico e affermare il bipolarismo (e questo 
                    riguarda il comportamento elettorale dei cittadini e come 
                    tale riguarda la politica e non incostituzionali premi di 
                    maggioranza).  In conclusione: prima 
                    sgombriamo il campo da una sorta di metafisica salvifica 
                    della riforma elettorale, meglio possiamo affrontare il 
                    problema.   |