| Il PD è da un lato l’unico vero, 
                    significativo partito – dotato cioè di un minimo di 
                    stabilità, di organizzazione, di regole e di prospettiva - 
                    nel panorama politico italiano di questi mesi, dall’altro 
                    continua a essere, come lo erano stati i suoi progenitori, 
                    soprattutto i PDS/DS, un partito inerziale, che vive cioè 
                    più per forza d’inerzia, che per propulsione propria.  Unico significativo partito, perché il 
                    resto del sistema partitico appare, a seconda della 
                    prospettiva che si vuole adottare, o come un deserto o come 
                    un territorio strutturalmente franoso o come un cantiere 
                    eternamente aperto o infine come un terreno di scorribanda  
                    e di rapina (di voti) per l’incursore di turno.  Niente 
                    comunque di solido, strutturato e permanente. Il sistema dei partiti continua a 
                    essere sempre all’insegna della provvisorietà e della 
                    contingenza, quasi liquefatto, in perenne fase di 
                    destrutturazione/ristrutturazione, dove quest’ultimo 
                    processo è sicuramente meno veloce ed efficace del primo.  
                    E’ come una maionese impazzita. Dopo le ultime elezioni del 
                    febbraio 2013, il primo partito in termini di voti (25,5%, 
                    8.689.458 votanti), il Movimento 5 Stelle, è un non-partito, 
                    come si autodefinisce, il cui futuro è del tutto aleatorio. 
                    Certamente non è un parliamentary fit party, per usare 
                    un’efficace ma sempre dimenticata espressione di Sartori (e 
                    basti pensare all’idea che hanno i due capi del Movimento 
                    sull’art. 67 della Costituzione e sulla disciplina 
                    interna).  Il terzo partito (il secondo è il PD, ma v. infra), 
                    il Popolo della Libertà (21,6%, 7.332.972 votanti,  il 15,8% 
                    in meno e 5.285.893 votanti in meno rispetto alle elezioni 
                    2008) appare, in quest’autunno 2013, in fase di implosione,  
                    dilaniato com’è tra coloro (i falchi e i lealisti) che 
                    vogliono impedire o ritardare la decadenza da senatore  di 
                    Berlusconi scaricandola sull’intero paese  (spallata al 
                    governo Letta delle larghe intese, fine della legislatura e 
                    nuove elezioni immediate) e coloro che, pur  rinnovando la 
                    professione di fede eterna  al capo fondatore, non sono 
                    disposti a sacrificare governo e legislatura, anche a costo 
                    di una scissione del partito (le colombe e i governativi). 
                     E’ dunque un partito che sta finalmente superando, dopo 
                    vent’anni, lo stadio primitivo della dipendenza assoluta al 
                    capo fondatore, ma non si sa ancora se tale emancipazione e 
                    istituzionalizzazione vedrà ancora il partito unito, data 
                    oramai la distanza della divaricazione interna tra le 
                    diverse anime, o se la fine inevitabile della lunga 
                    leadership di Berlusconi non produca una deflagrazione in 
                    mille schegge del partito che fu.  Dietro questi tre 
                    partiti, che costituiscono o da soli o con qualche alleato i 
                    tre poli principali, nessuno dei quali ha superato alla 
                    Camera il 30% dei voti, c’è tutto un pullulare di partitini 
                    frutto di promesse mancate, di tentativi falliti, di 
                    ambizioni ridimensionate, di stanche e rituali sopravvivenze 
                    di nicchia.  Insomma, non è segno di esagerazione o 
                    di semplificazione costatare che l’unico partito che in 
                    qualche modo assomigli a un partito vero, come sono tutti i 
                    partiti di governo nelle democrazie occidentali, è il PD.  Ma l’essere l’unico vero partito, 
                    lungi dal giustificarne tutta la sua vicenda, ne accresce 
                    enormemente le responsabilità sistemiche. Nel quadro 
                    partitico che abbiamo descritto il PD dovrebbe giganteggiare 
                    e porsi come un partito naturale di governo.  Se questo non 
                    è avvenuto nell’Italia di oggi, non è tanto perché l’Italia 
                    è preda dei vari populismi antipolitici, quanto perché le 
                    performances del PD, a cominciare dalla capacità di attrarre 
                    iscritti e voti a quella di comunicare e di proporre 
                    politiche chiare, a quella di proporsi come un grande 
                    partito della nazione, interclassista, rappresentativo di 
                    una larghissima maggioranza nel paese, sono state finora 
                    modestissime.   La dinamica che il partito esibisce 
                    dalla sua nascita (ottobre 2007) a oggi non è certamente di 
                    espansione, ma di mera sopravvivenza per forza d’inerzia.
                     Tra le elezioni del 2008 e quelle 
                    ultime del febbraio 2013 il partito passa dal 33,2% al 25,4% 
                    (Camera), perdendo in termini assoluti ben 3.448.475 
                    elettori, in una fase in cui la crisi del berlusconismo e 
                    degli altri partiti del centro-destra era più che avanzata. 
                    Qualcuno ha detto, causticamente ma realisticamente, che la 
                    mancata vittoria del PD a guida Bersani è come aver 
                    sbagliato un rigore a porta aperta.  E, in effetti, la 
                    campagna elettorale si è svolta nella piattezza più 
                    assoluta, tanto da risultare scontata e banale. Se guardiamo 
                    poi alla sociologia dell’elettorato che ha votato PD, 
                    risulta che questo partito “riformista” non attrae più – 
                    comparativamente agli altri due partiti/movimenti principali 
                    – i ceti che dovrebbe naturalmente rappresentare. Nelle 
                    recenti elezioni 2013, il PD ha avuto il 20% del voto 
                    operaio (a fronte del 29% del M5S e del 24% del Pdl), il 18% 
                    dei disoccupati (rispettivamente 33% e 25%), il 23% degli 
                    studenti (37% e 11%), il 15% di lavoratori autonomi e 
                    professionisti (39% e 20%). Solo tra i pensionati è il primo 
                    partito (37%). Il PD si conferma, dunque, dal punto di vista 
                    sociale come un partito con un elettorato vecchio, come un 
                    partito che è incapace di attrarre i voti dei settori più 
                    deboli, più dinamici e più giovani della società italiana. E 
                    naturalmente non può non esserci una correlazione tra 
                    vecchiezza dell’elettorato e povertà programmatica e di 
                    elaborazione.  La stessa dinamica si avverte per quanto 
                    concerne la membership: dagli 831.042 iscritti del 2009 
                    (cifra che poneva il PD come secondo partito europeo) ai 
                    circa 250.000 del 2013 (ma prima delle primarie dell’8 
                    dicembre).  Se dall’elettorato e dalla membership saliamo 
                    alla leadership, il quadro non cambia, semmai peggiora. 
                    Dall’atto di nascita alla fine del 2013, e cioè nell’arco di 
                    6 anni, il partito avrà avuto ben 5 segretari (Veltroni, 
                    Franceschini, Bersani, Epifani, e come quinto il vincitore 
                    delle primarie dell’8 dicembre, quasi sicuramente Renzi). 
                    Quasi un segretario l’anno! Il che mostra con tutta evidenza 
                    la permanente instabilità al vertice del primo/secondo 
                    partito italiano, instabilità che peraltro si trasmette, o 
                    in qualche modo si riflette, al vertice governativo (dal 
                    2005 a oggi ben 4 diversi presidenti del consiglio, laddove 
                    in Germania dal 2005 al 2017 si ha un solo cancelliere, 
                    ossia Angela Merkel).   E comunque il dato testimonia 
                    palesemente il mancato consolidamento al vertice del  
                    partito di una leadership collettiva stabile e condivisa, 
                    che, com’è ovvio, è la condizione necessaria e 
                    imprescindibile dell’innovazione organizzativa, politica e 
                    programmatica nei partiti, in particolare di quelli di 
                    sinistra.  A queste valutazioni critiche ma 
                    realistiche si potrebbe opporre la grande innovazione e 
                    finora il grande successo delle primarie aperte agli 
                    elettori che il PD ha avuto il merito di promuovere e di 
                    inserire nel proprio codice genetico.  Ma il punto, o se si 
                    vuole il problema critico, è proprio questo. Il PD ha 
                    creduto di esaurire tutto il potenziale d’innovazione 
                    richiesto nella situazione italiana con e nelle primarie, 
                    trascurando tutte le altre dimensioni dell’innovazione.  Naturalmente, non si tratta di 
                    contestare le primarie in quanto tali – non si ha difficoltà 
                    a riconoscere che restano comunque l’unico fatto nuovo della 
                    politica italiana, e lo si è visto soprattutto nelle 
                    competizioni locali.  Si tratta, invece, di contestare tutto 
                    il progetto culturale del nuovo partito entro cui le 
                    primarie sono state assunte come funzionali e come termine 
                    esaustivo di ogni altra problematica.  Del resto, come 
                    controprova di questo ragionamento e prima ancora di entrare 
                    nel merito della genesi del partito (e, come sanno gli 
                    studiosi dei partiti, la genesi di questi imprime un marchio 
                    indelebile, difficile da cancellare), basti pensare 
                    all’effetto pressoché nullo che hanno avuto le primarie del 
                    25 novembre 2012 per il candidato premier sui risultati 
                    elettorali del febbraio 2013.   Eppure queste primarie hanno 
                    visto una larghissima partecipazione (3.110.211 partecipanti 
                    al primo turno, niente di simile in Europa) e sono state 
                    salutate da molti osservatori e opinionisti come la prima 
                    manifestazione di una sicura marcia trionfale verso le 
                    immediatamente successive elezioni, quale dei due candidati 
                    in ballottaggio, Renzi e Bersani, avesse vinto.  Visto 
                    l’enorme prestigio conquistato e l’intensa e continuativa 
                    copertura mediatica ricevuta dal partito, c’erano pochi 
                    dubbi che il vincitore delle primarie sarebbe stato anche il 
                    prossimo premier del governo italiano.  Naturalmente, si può 
                    anche osservare che le primarie erano andate benissimo, ma 
                    che il vincitore Pierluigi Bersani non era poi così adatto 
                    al ruolo di candidato premier.  Ma è un modo diverso per 
                    dire che le primarie non hanno raggiunto l’obiettivo per cui 
                    erano state pensate: scegliere e legittimare il migliore 
                    candidato, mobilitare e motivare una vasta porzione 
                    dell’elettorato, allargare i confini di partecipazione, 
                    costruire un evento simbolico e mediatico di vasta portata, 
                    ecc.  Le primarie, insomma, non solo non sono la soluzione 
                    dei problemi del partito, ma possono addirittura costituire 
                    l’alibi per evitare ben altre innovazioni e altri bilanci 
                    critici.  Dicevamo che bisogna andare alla genesi del 
                    partito per capire i termini del problema.  Il nuovo partito nasce nel 2007 sotto 
                    la spinta impietosa degli avvenimenti di quel periodo. La 
                    coalizione di centro-sinistra aveva vinto rocambolescamente 
                    le elezioni del 2006 (l’Unione di Prodi aveva avuto solo 
                    0,1% dei voti in più, circa 24.000 in termini assoluti, 
                    rispetto alla Casa della Libertà di Berlusconi), dando vita 
                    al II governo Prodi. Ma fu subito chiaro che il governo 
                    Prodi, espressione di una larghissima coalizione eterogenea 
                    e litigiosa che contava ben 11 soggetti tra partiti e 
                    partitini , era destinato all’insuccesso e al fallimento. 
                    Anzi, il governo Prodi del 2006-2008 ha rappresentato non 
                    solo il punto più basso del centrosinistra quanto a 
                    frammentazione, ma anche la fine dell’idea che ci potesse 
                    essere una democrazia valida dell’alternanza attraverso 
                    queste grandi coalizioni. E, difatti, tra il 2006 e il 2008 
                    matura da parte tanto dei leader di centrosinistra quanto 
                    dei leader di centrodestra la convinzione dell’inutilità 
                    delle grandi ed estese coalizioni elettorali eterogenee e 
                    della necessità, invece, di costruire grandi partiti 
                    maggioritari. Iniziò Veltroni, parlando di “partito a 
                    vocazione maggioritaria”, seguito a ruota da Berlusconi. Per 
                    la verità l’idea di costruire un grande partito democratico 
                    era da sempre stata presente nel centrosinistra. Ma era 
                    rimasta solo un’ispirazione ideale. Solo nel contesto del 
                    governo Prodi del 2006-2008 l’idea si dimostrò appropriata, 
                    urgente e necessaria, giacché quel governo rappresentò il 
                    massimo di litigiosità, di frammentazione e di inconcludenza 
                    (non si poteva decidere niente di significativo a causa dei 
                    numerosi veti incrociati).  Quindi era impossibile governare 
                    e tutti si convinsero che queste grandi coalizioni non 
                    reggevano più. Si avviò così il tentativo di formare grandi 
                    partiti maggioritari attraverso fusioni, tanto a destra che 
                    a sinistra, per evitare che al governo ci fossero coalizioni 
                    paralizzate dal potere di veto e di ricatto dei piccoli 
                    partiti. Questa era l’idea.  In sé, sul piano astratto della 
                    dottrina, l’idea era sacrosanta. Chi scrive ha sempre 
                    sostenuto e scritto che non ci può essere democrazia 
                    maggioritaria, ossia dell’alternanza, senza partiti 
                    maggioritari.  E legittima, sacrosanta e opportuna era 
                    l’idea di aggregare e di unire le tradizioni del riformismo 
                    italiano (le cui sopravvissute espressioni politiche, PDS/DS 
                    e PPI/Margherita, semplicemente vivacchiavano e ciascuna 
                    delle quali era troppo debole o troppo poco ambiziosa per 
                    sostenere da sola l’ambizione di divenire una forza 
                    maggioritaria) di costituire un soggetto partitico 
                    maggioritario, di presentarsi come un partito nuovo nelle 
                    idee, nell’organizzazione, nel rapporto con l’elettorato e 
                    con i propri iscritti. Sennonché il nuovo partito unificato se 
                    da un lato cercava di correggere, anche culturalmente, il 
                    difetto più grave del bipolarismo di coalizione (che era la 
                    frammentazione e l’eterogeneità delle coalizioni) 
                    realizzatosi fino allora proponendo una ricostruzione 
                    maggioritaria del sistema partitico (e la nuova legge 
                    elettorale del 2005, il Porcellum, sembrava sostenere 
                    quest’ambizione, viste le relative alte soglie e il premio 
                    di maggioranza), dall’altro incorporava come modello 
                    culturale di riferimento della nuova organizzazione un 
                    altrettanto grave difetto del bipolarismo italiano: il 
                    direttismo, ossia l’idea duvergeriana (ma distorta) della 
                    democrazia immediata. Il modello era quello della democrazia 
                    diretta (al limite del plebiscitarismo), basata sul circuito 
                    primarie aperte agli elettori-leader, e il cui rivestimento 
                    istituzionale doveva essere il cosiddetto premierato forte 
                    (elezione in qualche modo diretta del premier, potere di 
                    scioglimento, il destino della legislatura legato al suo 
                    destino personale, ecc.). In questo circuito contava poi 
                    solo la comunicazione del leader, tutto il resto non 
                    contava. Vedremo tra poco che cosa era tutto il resto. 
                    Intanto bisogna osservare che lo statuto assorbe come una 
                    spugna l’idea del direttismo e del premierato forte. Non a 
                    caso fu definito da un importante dirigente uno 
                    “statuto-mostro”. Basti citare il fatto che 
                    nell’impostazione iniziale lo statuto – in nome delle 
                    primarie e della democrazia diretta degli elettori - non 
                    prevedeva né iscritti né congresso, e il segretario non si 
                    poteva sostituire se non a costo di sciogliere tutto 
                    (l’Assemblea Nazionale), quasi si sciogliesse tutto il 
                    partito, il segretario è il candidato naturale alla 
                    premiership governativa nelle primarie di coalizione (e 
                    Bersani dovette far modificare lo statuto e inserire una 
                    norma transitoria per permettere a Renzi di partecipare alle 
                    primarie di coalizione del 25 novembre 2012) ecc.  Poi, per 
                    fortuna, qualcosa fu corretto. Furono introdotti gli 
                    iscritti, fu introdotta una norma secondo cui poi si può 
                    sostituire il segretario con i due terzi fino al termine del 
                    mandato del segretario dimissionario. E’ qualcosa, ma lo 
                    statuto resta ancora oggi effettivamente una mostruosità. 
                    Manca, ad esempio, la previsione di un congresso nazionale, 
                    inteso come organo rappresentativo di tutte le istanze del 
                    partito e come suprema istanza deliberativa. Queste funzioni 
                    sono assegnate alle primarie, giacché si afferma nell’art.9 
                    che “la scelta dell’indirizzo politico [si ha] mediante 
                    l’elezione diretta del Segretario e dell’Assemblea 
                    nazionale”. L’assolutizzazione delle primarie ha 
                    lasciato fuori, come dicevamo, tutto il resto di un partito 
                    politico. In particolare, ha lasciato fuori una 
                    partecipazione interna continuativa e deliberativa, e con 
                    ciò ha anche espunto qualsiasi capacità “cognitiva” (come 
                    sostiene Fabrizio Barca nel suo bel documento sul partito), 
                    elaborativa, programmatica.  Le primarie coinvolgono i 
                    singoli individui (iscritti o elettori che aderiscono a un 
                    albo) in un singolo atto in un particolare momento (la 
                    scelta del candidato segretario/premier o di altro candidato 
                    a carica monocratica). Lungi da noi la sottovalutazione 
                    della portata innovatrice di questo istituto.   Ma il coinvolgimento degli 
                    iscritti/simpatizzanti finisce qui e l’apertura 
                    dell’organizzazione interna al popolo esterno si richiude 
                    subito dopo e il partito ridiventa “intermittente”. La 
                    “macchina partitica” continua a essere asfittica, dominata e 
                    controllata dalle varie anime, correnti, fazioni attorno a 
                    questo o quel dirigente in una continua e pervicace 
                    autoreferenzialità, ma chiusa a qualsivoglia contatto 
                    esterno.  I vari leader che si sono succeduti hanno innovato 
                    questa macchina autoreferenziale immettendovi meramente 
                    due-tre-quattro intellettuali/consiglieri di fiducia, 
                    facendoli poi eleggere come parlamentari, pensando così di 
                    avere assolto il compito di dare uno spessore culturale e 
                    cognitivo all’intero partito. E questo anche al di là dalle 
                    propensioni personali dei vari leader.  C’è stata, insomma, una sorta di 
                    “evaporazione” dei legami con il mondo intellettuale 
                    diffuso, con i centri di ricerca, con le Università, con le 
                    varie Fondazioni culturali orbitanti nell’area del 
                    centrosinistra, con le competenze multiformi, da sempre 
                    anche questi un punto di forza dei vecchi partiti popolari 
                    di massa e infrastruttura insostituibile anche per i partiti 
                    popolari più innovativi d’oggi.  Le varie Fondazioni sono 
                    solo feudi d’influenza personale dei vari leader. Ma 
                    Fondazioni e quei pochi centri di ricerca ancora 
                    sopravvissuti non entrano nel circuito cognitivo più 
                    generale del partito. E’ difficile ricordare qualche 
                    convegno/seminario significativo, su questa o quella 
                    politica pubblica. E’ difficile ricavare una visione 
                    generale, culturalmente fondata, analiticamente articolata, 
                    originalmente propositiva dai vari documenti programmatici, 
                    tutti contrassegnati da una sconfortante genericità se non 
                    banalità (a cominciare dal Manifesto dei Valori del 2008). E 
                    questo a causa dell’abbandono di quelli che erano i compiti 
                    fondamentali di un partito di sinistra con ambizione 
                    maggioritaria, ossia – per dirla con la terminologia di 
                    Barca – la continua “mobilitazione cognitiva” e l’incessante 
                    “sperimentalismo democratico”, che poi non sono altro che i 
                    compiti che Gramsci attribuiva al partito come 
                    “intellettuale collettivo” e che qualsiasi partito 
                    maggioritario di governo, soprattutto se socialdemocratico o 
                    democratico, comunque riformista, non può non perseguire. Le primarie non risolvono il problema 
                    di impiantare nell’intero circuito e processo del partito 
                    una partecipazione continuata ai fini di una deliberazione 
                    collettiva. La leadership personale, anche quando 
                    autorevole, capace, attrattiva e seducente, non è 
                    sufficiente a riempire il vuoto del partito soprattutto 
                    nell’attività di governo. Il consenso alle politiche 
                    governative non viene solo dall’attrazione del leader 
                    personale, ma da un profondo processo di coinvolgimento 
                    nell’elaborazione e nella scelta delle politiche che solo 
                    strutture partecipate di un partito possono garantire, e 
                    alle quali si devono rapportare non solo singoli individui 
                    ma il mondo più vasto delle associazioni culturali, dei 
                    gruppi d’interesse, degli ordini professionali. Una 
                    leadership non in sintonia con il proprio partito, che non 
                    abbia questa larga infrastruttura sociale, non ha davanti a 
                    sé molta strada (l’esperienza di tutti i grandi partiti, 
                    conservatori e progressisti ce lo insegna). Si può essere 
                    anche presidenti, in sistemi presidenziali e 
                    semipresidenziali, ma senza un sostegno di un partito questi 
                    non riescono nel compito di realizzare efficacemente e con 
                    il sostegno popolare qualsivoglia politica. Anche le risorse 
                    della comunicazione politica sono insufficienti da sole, 
                    senza la qualità intrinseca di un prodotto che si voglia 
                    piazzare nel mercato politico. Non basta saper comunicare – 
                    anche se questo è ovviamente importante -, occorre 
                    comunicare cose vere, non artificiose. Non conta solo la 
                    confezione del prodotto, ma anche e soprattutto la qualità 
                    del prodotto. Sono due esigenze inseparabili. Nelle elezioni del 2008 il PD si 
                    presentava al meglio delle sue possibilità rispetto al 
                    modello culturale di partito che aveva scelto: primarie con 
                    una partecipazione imponente (le primarie del 2007 videro la 
                    partecipazione di circa 3 milioni e mezzo di elettori), un 
                    leader popolare (Veltroni) in grado di svolgere un’efficace 
                    campagna mediatica. Ma tutto ciò non è bastato a vincere le 
                    elezioni, nonostante occorre riconoscere che il PD abbia 
                    ottenuto allora il massimo dei voti (33,2%) mai raggiunti e 
                    che sulla sconfitta abbia pesato in maniera determinante il 
                    ricordo pessimo del governo Prodi.  Nel breve periodo della 
                    leadership di Veltroni il partito nacque, fu pensato e 
                    costruito come un partito “leggero”, anzi liquido, dominato 
                    di un’ansia di “nuovismo” tanto effimero quanto inefficace. 
                    Ed è singolare che proprio Veltroni, guardando allo stato 
                    della politica italiana, PD compreso, arrivi oggi a 
                    lamentarsi del fatto che “…prevale dovunque la politica 
                    dell’istante, senza passato e senza futuro, proiettata nella 
                    polemica del giorno…Tutto in Italia è molto leggero, 
                    volatile, privo di radici e nello stesso tempo di 
                    prospettiva. Non basta mettere insieme pezzetti di 
                    programma; ci vuole una visione generale, un’idea 
                    dell’Italia…[ci vuole] profondità..” (intervista al Corriere 
                    della Sera del 20 ottobre 2013). Singolare proprio perché fu 
                    proprio Veltroni a teorizzare la “leggerezza” del partito e 
                    a costruire il nuovo partito come una tabula rasa (da cui lo 
                    stesso nome di democratico, e per cui il riferimento storico 
                    alle radici nel movimento del socialismo riformista era 
                    estirpato o comunque annacquato in un generico universalismo 
                    dei valori liberal). Comunque, meglio questo ripensamento 
                    oggi.  Dopo la leadership di Veltroni il nuovo 
                    partito attraversò una sorta di lenta consunzione.  Perso il 
                    suo leader ispiratore, il partito si rivelò essere “un 
                    amalgama mal riuscito”, secondo la cruda ammissione di 
                    D’Alema, permanentemente bloccato dai veti incrociati delle 
                    sue componenti costitutive tanto da farlo sembrare più un 
                    pachiderma immobile che un grande partito con una sua 
                    visione e una sua iniziativa. Difatti, il partito non ha mai 
                    fatto in questi anni una vera e originale proposta netta, 
                    proprio perché un partito internamente paralizzato e 
                    condizionato dalla “politica dell’istante”, dove tutto è 
                    contingente e dove non c’è mai tempo di pensare in e con 
                    “profondità”. Né l’avvento di una leadership culturalmente 
                    diversa, come quella di Pierluigi Bersani, che pure era 
                    avvertito della necessità di superare il “nuovismo” di 
                    Veltroni e di ricostruire un vero partito – è merito di 
                    Bersani non aver perseguito l’idea della personalizzazione, 
                    non mettendo il suo nome sulla lista -, ha cambiato granché 
                    la situazione. Le forze e le idee si sono dimostrate povere 
                    e al di sotto delle aspettative. Semmai, si è fatto anche 
                    qualche passo indietro a causa di una certa patina di 
                    apparato che il nuovo leader possedeva e di una qualche 
                    burocratica protervia a non accettare immediatamente i 
                    risultati delle urne. Difatti, la gestione post-elettorale 
                    di Bersani – dalla formazione di un nuovo governo 
                    all’elezione del nuovo presidente della Repubblica – è stata 
                    disastrosa.  Con la conquista della leadership di 
                    partito di Renzi – sicuramente ottenuta quando questo 
                    articolo sarà pubblicato -, si apre una pagina nuova. Per la 
                    prima volta il PD sarà guidato (a parte Franceschini ed 
                    Epifani, segreterie momentanee e di passaggio) da un non 
                    ex-comunista. Renzi non appartiene al quel gruppo di 
                    comunisti sopravvissuti, che non credevano più non solo al 
                    comunismo ma anche al socialismo socialdemocratico, che non 
                    credevano più al partito, che insomma, alcuni con molto 
                    disincanto e persino con cinismo, non erano in grado di 
                    prospettare un futuro, perché appesantiti e schiacciati da 
                    un passato comunista ingombrante e sconfitto dalla storia. 
                    Un gruppo che aveva gettato il bambino (il socialismo 
                    riformista) con l’acqua sporca (il comunismo). Renzi è di 
                    un’altra storia. E’ anche lui un politico di professione, ma 
                    è giovanissimo, ha fatto il presidente di provincia e il 
                    sindaco, ha una straordinaria capacità comunicativa, qualità 
                    che lo rende adattissimo a condurre e probabilmente vincere 
                    una campagna elettorale, ha anche idee programmatiche 
                    innovative, è intelligente, attraente, simpatico, seducente, 
                    spregiudicato, ambizioso. Oggi è una speranza e una 
                    potenzialità, nel bene e nel male, per il partito – e in 
                    qualche modo per l’Italia, anche se non bisogna dimenticare 
                    che Enrico Letta si è rivelato un ottimo premier – e dunque 
                    va seguito senza pregiudizi o ostilità preconcetti. Speranza 
                    e potenzialità tanto più realizzabili quanto più il panorama 
                    politico complessivo appare deprimente.   Concesso di buon  grado tutto questo, 
                    non si può ignorare che il modello di partito costruito è 
                    sbagliato e del tutto inadeguato, anche nel compito di 
                    sostenere una leadership personale di successo. Un partito 
                    (o coalizione) non può vincere senza una leadership 
                    personale adeguata. Ma una leadership personale, anche 
                    straordinaria, non può fare a meno di un partito che non sia 
                    semplicemente o un comitato elettorale o un ricettacolo di 
                    vecchi e nuovi pezzi di oligarchie interne. Se Renzi mette 
                    la sua pur legittima ambizione personale al servizio di 
                    questo progetto, diciamo, collettivo, allora può (ri)iniziare 
                    la missione del partito democratico al servizio del paese.
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