| Finalmente qualcosa si muove sul terreno 
                    delle leggi elettorali e delle riforme istituzionali. Ma non 
                    solo. Pare che i leaders della maggioranza vogliano 
                    affrontare anche la questione della riforma dei partiti, 
                    perché sia concretamente garantito quel metodo democratico 
                    che, per il costituente (art 49), doveva essere la regola 
                    fondamentale a cui essi dovevano attenersi. C'è un'evidente 
                    relazione tra il deficit di democrazia che si registra 
                    all'interno dei partiti e la scadente qualità democratica 
                    del sistema istituzionale, tra la delegittimazione dei 
                    partiti e la delegittimazione del Parlamento.
 In questo senso, gli scandali che hanno riguardato in questi 
                    mesi la gestione del finanziamento pubblico costituiscono 
                    solo la punta dell'iceberg. Queste risorse sono state a suo 
                    tempo pensate per promuovere la partecipazione politica, e 
                    non come una provvista «privata» a disposizione dei 
                    segretari e dei tesorieri dei partiti.
 
 Siamo di fronte ad una crisi economica che sta comportando 
                    pesanti sacrifici per la stragrande maggioranza dei 
                    cittadini, che giustamente pretendono un'equa ripartizione 
                    dei sacrifici. Questo principio vale per tutte le categorie 
                    sociali, ma dovrebbe valere soprattutto per i partiti. Si 
                    tratta di assumere decisioni ragionevoli, ancorché 
                    necessitate, e soprattutto di sapere ascoltare il Paese, 
                    considerato che la voglia di discutere pare prevalere, a 
                    differenza che in passato, sulla voglia di forca. Il 
                    rapporto che si va stabilendo tra governo e popolo dimostra 
                    che la gente sa distinguere, che non fa di tutti i politici 
                    un fascio.
 
 Ci sono, quindi, le condizioni per una rinascita della 
                    politica e dei partiti. Non è vero che nelle cosiddette 
                    società postdemocratiche sono rifiutati i partiti in quanto 
                    tali, e preferite forme di democrazia plebiscitaria. E' ben 
                    vivo nella memoria l'entusiasmo suscitato dalle primarie in 
                    Italia, quando si gettavano le basi per fare il Pd. I 
                    partiti sono rifiutati quando essi appaiono rattrappiti, 
                    chiusi in se stessi; quando promettono le riforme e poi 
                    brigano sotterraneamente per tenere in vita, così com'è, un 
                    sistema elettorale che consente ai segretari ed ai loro 
                    uomini di fiducia di nominare gli eletti in Parlamento. E 
                    per convincersi di ciò, basti pensare alla grande 
                    partecipazione che si registra intorno ai candidati sindaci 
                    che devono essere eletti dal popolo. Il fatto che costoro 
                    sono sempre più spesso candidati eletti a dispetto dei 
                    partiti, che vincono le elezioni in quanto «eretici», non 
                    può non fare riflettere. Il meno popolare dei sindaci oggi 
                    gode del 43% dei consensi, stando ai dati pubblicati di 
                    recente dal Sole 24 ore,mentre dei partiti si fida solo il 
                    4% degli elettori. Sulle ragioni di questa abissale distanza 
                    creatasi, in termini di fiducia riscossa, tra i sindaci 
                    eletti dal popolo e i parlamentari «nominati» dai partiti, 
                    nei palazzi della politica non si rifletterà mai abbastanza. 
                    Nessuna riforma istituzionale, grande o piccola che 
                    sia,produrrà gli effetti sperati, se prima non verranno 
                    «riaperti al pubblico» i partiti. La privatizzazione dei 
                    partiti - l'unica privatizzazione veramente riuscita in 
                    Italia - non poteva non portare ad una sempre più diffusa 
                    apatia democratica. Non servono i palliativi, come quello di 
                    ridurre il numero dei consiglieri comunali e provinciali, o 
                    di tagliare le loro indennità. Si tratta di decisioni 
                    opportune, ma che da sole non risolvono la crisi della 
                    politica. Il problema non è tanto quello di legare le mani 
                    ai partiti, magari per fare crescere il potere dei 
                    burocrati, ma di avere partiti in grado di esprimere idee e 
                    dirigenti che facciano riguadagnare alla politica il 
                    necessario prestigio. Su questo terreno qualcosa è cambiato 
                    negli ultimi tempi. Lo stile del nuovo personale di governo 
                    piace a molti, ovunque collocati politicamente. Adesso, 
                    però, bisogna fare parlare i risultati.
 
 Il confronto che si è aperto nella maggioranza, sul tema 
                    delle riforme - legge elettorale, riordino della forma di 
                    governo parlamentare, disciplina della vita interna dei 
                    partiti - offre, anche per il metodo che si sta seguendo, 
                    l'opportunità di coinvolgere l'opinione pubblica, da anni 
                    apparsa del tutto indifferente a queste discussioni.
 
 Un accordo tra i più grandi partiti della maggioranza su 
                    temi difficili, come la legge elettorale e la riduzione del 
                    numero dei parlamentari, oggi è possibile perché la tregua 
                    politica mette tutti nella condizione di concedere qualcosa, 
                    senza cedere alla tentazione di rivendicare regole fatte su 
                    misura, magari minacciando la caduta del governo.
 
 Naturalmente non mancano i dietrologi, i quali spiegano che 
                    tanta disponibilità a discutere sottenda la volontà di 
                    prolungare la tregua ben oltre la fine di questa 
                    legislatura, e quindi servirebbe a poco rompere oggi sui 
                    meccanismi della legge elettorale, se la larga coalizione è 
                    destinata a rimanere in piedi anche dopo le elezioni 
                    politiche.
 
 Il governo Monti, insomma, sarebbe sempre più vissuto, da 
                    parte di chi lo sostiene, come un elemento di discontinuità 
                    rispetto al bipolarismo che abbiamo conosciuto, 
                    caratterizzato da grandi partiti baricentrici deboli e da 
                    partiti minori capaci di esercitare un diritto di vita e di 
                    morte sulle coalizioni.
 
 Ebbene, anche se la disponibilità a negoziare dovesse 
                    dipendere dal disegno di creare le condizioni per una tregua 
                    lunga, essa va valutata positivamente. E' questo il giudizio 
                    prevalente nel Paese, che vuole la soluzione dei problemi e 
                    non la ripresa delle faide tra i partiti. Nelle grandi 
                    democrazie, in momenti delicati della vita nazionale, le 
                    coalizioni larghe non hanno scandalizzato nessuno.
 
 Le grandi riforme, del resto, hanno bisogno di ampio 
                    consenso. Una cosa pare infatti certa. Occorre un adeguato 
                    lasso di tempo perché il processo di riforma delle 
                    istituzioni possa compiutamente realizzarsi, dispiegando 
                    tutti i suoi effetti,e consentendo quindi eventuali 
                    correzioni di rotta,di fronte a incomprensioni o rifiuti 
                    manifestati dagli elettori.
 
 Le esperienze fatte in questi anni in tema di grandi riforme 
                    dimostrano che un'alternanza che produce una totale 
                    discontinuità negli indirizzi di governo non è in grado di 
                    riformare un bel nulla. Finora, ogni nuovo governo, non 
                    appena insediato, si è proposto di fare la riforma della 
                    riforma voluta dal governo che lo ha preceduto, con la 
                    conseguenza che di nessuna riforma si possono verificare a 
                    regime i risultati. Pare che l'attuale governo voglia 
                    invertire questa tendenza; a cominciare dalla riforma 
                    universitaria voluta dal ministro Gelmini, e che il ministro 
                    Profumo è intenzionato, con qualche correzione, ad attuare.
 
 Prevedere che un governo delle riforme abbia bisogno di un 
                    tempo più lungo di quello che rimane di questa legislatura, 
                    può costituire un atto di responsabilità da parte dei 
                    partiti dell'attuale maggioranza.
 
 Se ciò non accadrà, la democrazia italiana continuerà essere 
                    debole, con il rischio che dopo il governo tecnico possano 
                    di nuovo prevalere derive populiste ed emergere nuovi uomini 
                    della provvidenza.
 
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