| Dal teatrino di Rimini la Lega 
                    (Calderoli, Maroni, Tremonti) ha dato l’avvio formale alla 
                    «campagna d’autunno» di una maggioranza allo sbando. E lo ha 
                    fatto, in un tono arrogante e deciso, definendo 
                    «pregiudizio» le esplicite condanne della Chiesa cattolica 
                    ai livelli più alti e declamando «l’orgoglio» per l’opera 
                    grande di un governo che l’Europa approva, invidia, imita. L’Italia di Berlusconi appare d’un 
                    subito quella che il suo caudillo voleva che fosse, una 
                    santa circondata da angeli e cartigli che scrive la nuova 
                    lettera dell’eterna investitura al Partito dell’Amore: e 
                    grazie a Marchionne (e alla Marcegaglia) può partire da qui 
                    per tutto l’Occidente la «storica» rivoluzione 
                    post-capitalistica del mondo del lavoro e della produzione. 
                    Era quello di cui c’era, c’è bisogno per la ripresa morale 
                    di un Paese cui sono stati imputati a torto errori e 
                    ritardi: il grido appassionato di Tremonti ne riassume il 
                    momento e l’ispirazione. Sullo stesso piano la sua Grande 
                    Manovra e l’impresa di Maroni che sconfigge d’un sol colpo 
                    mafia e immigrazione (clandestina): quindi a cascata, le 
                    riforme della scuola e della pubblica amministrazione. Non v’ha migliore introduzione 
                    all’invio imminente del Libro bianco del premier che 
                    documenterà il divario tra la politica del fare e la 
                    politica del parlare. Non è singolare che, dal lungo show 
                    leghista, siano lasciati fuori i pilastri del New Deal del 
                    Lago Maggiore:  il federalismo e la giustizia? Le leggi 
                    attuative del federalismo fiscale e il finale lavacro del 
                    lider maximo dagli schizzi della fanghiglia talebana? Eppure 
                    è questo, con il Sud, il terreno che Fini avrebbe scelto per 
                    indicare quel modo diverso di fare politica, per cui si 
                    chiedono strumenti e metodi nuovi. Nessuno ha ancora capito cosa il 
                    Mezzogiorno sarà chiamato a fare per sé e per il Paese, e 
                    cosa il governo si impegna a fare per chiudere alla grande 
                    la «storica» questione meridionale. Lombardo e Miccichè, i 
                    cofondatori del Partito del Sud, non hanno detto nulla sul 
                    dramma presente della Sardegna o sulla Calabria della 
                    ’ndrangheta; mentre aspettiamo di capire, chiuso in fase 
                    istruttoria il processo a Garibaldi, quale sia il posto 
                    assegnato alla identità siciliana (non invidio certo 
                    l’assessore Armao) nella intesa/competizione con le identità 
                    regionali del resto del Mezzogiorno. Mi limito a notare la singolarità di un 
                    progetto di partito del Sud da parte di chi nega che Sud e 
                    questione meridionale esistano ancora come problema 
                    politico; o confida nella ridicola apologia dei «nobili» 
                    fatti di Reggio del ’70 che ha meritato un’esibizione 
                    mediatica a Taormina. La campagna d’autunno è partita: la 
                    Gelmini fronteggia i precari della scuola, Letta «apre» 
                    all’Aquila la Perdonanza, Tremonti getta nelle aride gole 
                    dei comuni la cassata dei beni in svendita, Alfano annuncia 
                    il miracolo del processo breve, e Gheddafi soccorre allo 
                    «sviluppo creativo» dell’Italia post-coloniale. Sono gli 
                    annunci dei politici, che si eccitano alle incazzature di 
                    Napolitano, alla legge elettorale, all’Ulivo 2, persino al 
                    Lombardo quater e al «tengo famiglia»: mentre Cota prova le 
                    ali di Mercurio per l’incontro «risolutivo» con Fini. E la gente comune, senza pregiudizio e 
                    senza orgoglio? Non ha atteso l’autunno per misurare la 
                    realtà delle sue paure: e si attrezza come può alle derive 
                    inattese. Dopo il terremoto della «crisi globale » registra 
                    la sequela delle minori scosse con la frana dell’indotto, la 
                    chiusura delle imprese minori e delle cooperative, il 
                    dilagare dell’usura e la contrazione del risparmio privato. 
                    Il servizio pubblico (scuola, giustizia, sicurezza, 
                    trasporti, sanità) è al collasso e nondimeno cresce la 
                    pressione fiscale: v’ha il paradosso dell’acqua che paghiamo 
                    anche per la parte che non consumiamo (alla faccia 
                    dell’invito al risparmio), v’ha lo scandalo della 
                    riclassificazione del consumo del gas (che porta al 
                    ricalcolo dal 2009 del già pagato), v’hanno gli adeguamenti 
                    delle Tarsu e dei pedaggi senza riferimento ad incrementi 
                    corrispettivi del servizio, v’ha il «pactum sceleris» tra  
                    l’Agenzia delle entrate e i titolari dell’esazione, mentre 
                    la revisione e l’aggiornamento del catasto procedono per 
                    casualità ed accidenti. L’invettiva contro le regioni 
                    «cialtrone» è servita per lasciare nella disponibilità del 
                    Tesoro fondi Fas e fondi europei, chè da loro dovranno 
                    venire una significativa riduzione delle spese e la 
                    standardizzazione dei costi (che vien presentata come il 
                    nucleo vero del federalismo fiscale). Ma non perciò la spesa pubblica appare 
                    sotto controllo, o in significativa diminuzione - anche 
                    quando si dichiarano nuove entrate, come quelle provenienti 
                    dallo Scudo Fiscale o dalla lotta all’evasione. Com’è noto, i miliardi provenienti dal 
                    condono sono andati a poste ben differenti da quelle 
                    annunciate, e - per via del sistema premiale - non v’ha 
                    distinzione tra l’evasione scoperta e l’evasione saldata, 
                    visto che i calcoli correnti non registrano una diminuzione 
                    dello scandaloso cumulo. Persino Barroso, dalla sua palestra del 
                    «tempo perso», ha ricordato al governo italiano che c’è un 
                    debito pubblico e bisogna fare di più per i conti pubblici. 
                    Potete giurarci: dalla campagna d’autunno non trarremo 
                    nessuna indicazione del modo (e tempi) di contenimento e/o 
                    riduzione del debito; alla bufala del federalismo si opporrà 
                    nel fatto l’emergenza di un saldo potere centrale a garanzia 
                    del debito. E dovremo anzi all’esistenza del debito la 
                    tenuta dell’unità di un Paese destinato allo spezzatino 
                    leghista: dopo la beatificazione di Cossiga, toccherà al 
                    «cinico» Andreotti il merito riconosciuto di avere salvato 
                    l’unità d’Italia. Guardato dal Sud, questo teatro avrebbe 
                    bisogno di Pirandello: Camilleri ne raccoglie le smorfie, 
                    laddove Sciascia s’era illuso di dipanarne la corda pazza. 
                    Intanto la scena è affollata da «pupi», da un ceto politico, 
                    che si applaude e gonfia d’orgoglio per aver vinto partite 
                    simboliche di una guerra che non è ancora agli inizi. La 
                    lezione è tutta qui: meno stupido orgoglio, e più pregiudizi 
                    consapevoli. Ci sarà chi l’ascolti ?   |