Il futuro politico del nostro paese appare molto incerto.
Molti affermano che stiamo vivendo la fine di un’epoca,
quella di Silvio Berlusconi. Oggi è difficile dire se è
vero. Più cautamente si può affermare che alcuni nodi stanno
venendo al pettine. Uno dei nodi cruciali è quello che lega
l’esercizio del potere alla sua fonte di legittimazione.
Negli stati moderni quella fonte è nient’altro che la legge.
Questa proposizione è stata messa in dubbio negli ultimi
anni: alla legge è stata sostituita la volontà popolare.
Secondo questa visione l’espressione della volontà popolare
è sempre un momento costitutivo che legittimerebbe anche un
rinnovo totale delle regole della convivenza. È la
cosiddetta dittatura della maggioranza. Le sue virtù
sarebbero: la capacità innovatrice e la tempestività
dell’intervento. Se invece l’esercizio del potere fosse
sottoposto alla legge, qualunque essa sia al momento
dell’espressione della volontà popolare, ne deriverebbero
ritardi, inefficienze, conservazione. A questa
argomentazione altri rispondono che l’esercizio della
volontà popolare deve avvenire all’interno del quadro
normativo vigente al momento dell’espressione della volontà
popolare, poiché l’atto costituivo è già stato compiuto al
momento della emanazione della costituzione repubblicana.
La questione diventa dunque: può una società sopportare
svariati e ravvicinati momenti costitutivi senza
compromettere la sua capacità di funzionamento e di
evoluzione nel tempo? Parimenti, può una società rinunciare
del tutto a ricostituirsi nella pretesa che l’atto
costitutivo sia unico e intangibile? Sono queste le domande
cui si dovrebbe cercare di dare risposta, poiché da questa
risposta dipende la scelta di come organizzare il sistema
politico-istituzionale nei prossimi anni. Sul punto di
recente hanno già scritto su questo giornale Salvo Andò e
Salvatore Spagano.
La questione tocca un antico dibattito sulla natura della
democrazia: se essa è un contenitore od un contenuto, ossia
se è un metodo od una sostanza. Se vale la prima accezione,
ossia quella della democrazia contenitore o metodo, basta
che una regola venga imposta con il metodo democratico,
rispettando dunque il volere della maggioranza, perché essa
sia accettabile a prescindere dalla natura democratica del
suo contenuto. Valga per tutti un esempio estremo: la pena
di morte può infatti essere votata dalla maggioranza dei
cittadini. In questo caso una regola profondamente
antidemocratica (intendendo per democrazia la reversibilità
della decisione) viene adottata con il volere dei più. Un
altro esempio è dato dalla elezione di un dittatore (nella
sua versione moderna o antica): si sceglie democraticamente
di essere governati non democraticamente. Se vale la seconda
accezione, ossia quella della democrazia contenuto o
sostanza, basta che una regola sia internamente democratica
perché non conti il modo in cui essa viene adottata. Imporre
un regime democratico con la violenza o con una guerra è
l’esempio estremo di questa accezione. Costruire una
posizione di potere con metodi illeciti per poi esercitare
quel potere in modo democratico è un altro esempio.
Vi è ovviamente un terza accezione: quella per la quale
la democrazia è sia un contenitore sia un contenuto, metodo
e sostanza insieme. Si tratta dell’idea di democrazia di più
difficile realizzazione poiché, a differenza delle prime
due, non consente scorciatoie. Non consente la retorica del
«ritorno al paese» o della «parola agli elettori» per
imporre soluzioni autoritarie; così come non consente il
ricorso alla violenza o alla retorica della «guerra giusta»
per ristabilire la democrazia.
Essa dunque toglie enfasi dal momento costitutivo e
rinuncia alla tentazione di rifondare continuamente la
democrazia. Ma rischia di restare senza spinta propulsiva
perché colloca il momento costitutivo in un tempo lontano
del quale molti possono aver perso memoria.
Questa ricostruzione è utile per interpretare le vicende
del nostro paese: da un lato troviamo il richiamo alla
rifondazione che sia il PdL sia la Lega emettono
continuamente; dall’altro il richiamo alla difesa
dell’antico patto costitutivo emesso dal Pd. Una
ricostituzione permanente contro la costituzione unica. Ma i
due richiami rischiano di sovrapporsi producendo solo un
rumore indistinto. Tra una chiamata alle armi per rifondare
ed un’altra per difendere, il rischio è quello di non
governare più i processi reali, economici, sociali,
culturali che certo non aspettano la conclusione del nostro
«dibattito» nazionale sull’idea di democrazia. In un
articolo dell’Economist della scorsa settimana, che riguarda
il rapporto difficile tra l’Italia e l’Unione Europea, si
riporta una efficace notazione linguistica che conferma
questa analisi. In italiano esiste una sola parola per
indicare due cose distinte; la parola politica indica ciò
che in inglese è distinto in politics e policy. Politics è
ciò che si fa nelle campagne elettorali; policy è ciò che si
fa una volta al governo. Questa confusione linguistica
produce in Italia effetti reali: sfruttando l’ambiguità ci
si concentra più sulla politics che sulla policy.
Esiste una strada, che non sia tra quelle già percorse
della rifondazione continua o della difesa ad oltranza, per
uscire dalla crisi politico-istituzionale ormai evidente? La
strada se esiste deve certamente passare dallo sforzo di
coniugare stabilità ed innovazione: nessun sistema sopporta
una ricostituzione continua così come nessun sistema
sopporta un divieto assoluto di ricostituzione. La
ricostituzione deve avere carattere straordinario ma non
deve essere preclusa. I passaggi di rigenerazione sono utili
ma non possono diventare continui senza perdere la loro
natura di momenti di rivitalizzazione del sistema. C’è la
politics e c’è la policy appunto: c’è la progettazione del
nuovo e c’è la realizzazione del nuovo. Che ci sia un
problema di separazione delle carriere anche in politica? Si
tratta di funzioni diverse: forse sono necessari due
percorsi diversi. A ben vedere questa separazione esiste
(almeno sulla Carta): vi è il Parlamento e vi è il Governo;
il potere legislativo ed il potere esecutivo; la politics e
la policy. Che sia utile tornare alla educazione politica,
cessando di credere che basti essere bravi imprenditori,
magistrati, professionisti, soubrette, per essere anche
bravi politici?
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