La rottura verificatasi all’interno del
Pdl rischia di fare scivolare la legislatura verso la fine
anticipata. Sarebbe la terza volta nella storia della
Seconda Repubblica che una legislatura duri solo due anni, o
poco più. E stavolta per il contesto in cui la crisi è
maturata, e per la durezza dello scontro politico che ne
segna lo svolgimento, pare del tutto evidente che si tratta
di una crisi di sistema che mette in discussione lo stesso
bipolarismo.
Una cosa pare certa. Se si dovesse
votare, in caso di elezioni anticipate, con l’attuale legge
elettorale avremo una legislatura ancora più corta e
tempestosa di quella attuale, considerata l’ulteriore
frammentazione intervenuta nel sistema dei partiti.
Questa consapevolezza spinge molti a
chiedere un governo di tregua che gestisca la transizione
verso le elezioni e metta insieme una maggioranza in grado
di approvare una nuova legge elettorale che sia rafforzata
da norme di accompagnamento che rendano più trasparente la
vita interna dei partiti, in primo luogo quando si tratta di
fare le liste elettorali.
Di fronte ad un percorso tanto
ragionevole, alcuni spiegano che per tale via si violerebbe
la Costituzione materiale instauratasi in forza della legge
elettorale di tipo maggioritario; che si mortificherebbe la
«sovranità sostanziale» del popolo, la sovranità che si
addice ad una democrazia maggioritaria che colloca il leader
in rapporto diretto con il suo popolo senza alcuna
mediazione del Parlamento e dei partiti.
Il premier indicato dal popolo nel caso
di dissolvimento della sua maggioranza, secondo questa
opinione, sarebbe legittimato quindi a decidere lo
scioglimento impedendo così al Parlamento di esprimere altra
maggioranza.
Questo asserito contrasto tra norme
costituzionali, ritenute obsolete, e prassi ci sembra
francamente un’invenzione di chi non ha la pazienza di
contare quante crisi di governo si sono verificate durante
questi quindici e passa anni, quanti presidenti del
Consiglio sono stati sostituiti in corso di legislatura,
quante volte si è reso necessario l’intervento del
presidente della Repubblica per temperare il decisionismo di
governi che ritenevano la Costituzione un vecchio arnese di
cui bisognava comunque liberarsi, visto che attraverso le
riforme istituzionali era possibile farlo. E ciò non solo
perché tra i due schieramenti non c’era accordo neppure sul
come fare le riforme - altro che conventions costituzionali!
– ma perché lo stesso corpo elettorale le ha rifiutate nel
2006 con il voto referendario, dopo che la maggioranza di
centro destra aveva approvato una «grande riforma» in
Parlamento.
La tesi secondo cui dovrebbe esservi un
automatismo tra crisi di governo e scioglimento anticipato
non trova fondamento né nella Costituzione del ’48, né in
una Costituzione materiale che si vuole fare discendere
dalla svolta verificatasi nel ’94 con la legge elettorale
maggioritaria.
Questo problema si era già posto a
pochi mesi dalle elezioni del ’94, quando la svolta del
maggioritario riusciva ancora a mobilitare il paese, di
fronte al conflitto tra il presidente della Repubblica ed il
presidente del Consiglio che aveva visto dissolversi la sua
maggioranza. La decisione presa da Scalfaro, e fortemente
contrastata dal presidente del Consiglio, di fare proseguire
la legislatura fu condivisa non solo dalla maggioranza dei
parlamentari, Lega compresa, ma anche dagli elettori che
successivamente, nel ’96, votarono contro un centro destra
che si presentava in campagna elettorale come vittima di una
congiura politica che avrebbe coinvolto anche il capo dello
Stato.
Era quella una scelta che sfatava il
mito di un presidente della Repubblica divenuto ormai un
notaio disarmato di fronte al volere dei partiti e della
maggioranza di governo. Si dimostrò che, a Costituzione
invariata, nulla poteva cambiare nei rapporti tra il
presidente ed il premier.
In Italia,del resto, tutti i presidenti
sono stati, chi più chi meno, interventisti, anche Einaudi
spesso ingiustamente descritto come un «arbitro assente».
Essi si sono inseriti nella dialettica politica tutte le
volte in cui gli eccessi di decisionismo del governo
richiedevano un richiamo presidenziale o qualcosa in più per
garantire i principi costituzionali. E così sarà
fintantoché, in modo esplicito, una nuova forma di governo
non ridimensionerà il ruolo del presidente a vantaggio di
quello del premier. E tuttavia, in questo eventuale
ridisegno del sistema dei rapporti tra i due vertici, non è
pensabile che all’espansione dei poteri del premier possa
non corrispondere una contestuale espansione di contropoteri
che valorizzino il ruolo del Parlamento ed in particolare
dell’opposizione.
Una democrazia dell’alternanza che
desse tutto a chi vince le elezioni, anche il diritto di
disporre della Costituzione, disconoscendo quel fondamentale
principio del potere limitato che rappresenta la stessa
ragion d’essere di una Costituzione degna di questo nome,
condurrebbe ad un governo solitario ed assoluto del leader,
incompatibile con un vitale pluralismo istituzionale.
La Costituzione sancisce che il governo
deve avere la fiducia del Parlamento e che quindi tutti i
governi in grado di ottenere tale fiducia sono legittimi, a
prescindere dal fatto che siano stati o no direttamente
indicati dagli elettori. Insomma, la legittimazione del
governo viene dal voto parlamentare. Attraverso questo voto
si esprime la sovranità del popolo di cui parla l’articolo 1
della Cost.
Non c’è nessuna Costituzione parallela
che possa sovrapporsi a quella del ’48 in forza di nuove
leggi elettorali.
I tre presidenti della Repubblica che
si sono succeduti in questi quindici e passa anni della
Seconda Repubblica hanno fatto buon uso delle loro
prerogative applicando la sola Costituzione che c’è, e
ignorando ogni pressione esterna, provenisse essa dai
palazzi della politica o dalla piazza.
Il fatto di fare indicare il nome del
premier nella scheda elettorale non poteva ridisegnare la
forma di governo, ma semmai avviare uno sviluppo parallelo
della Costituzione che non è però approdato a sbocchi
istituzionali chiari, definitivi.
Si è ridimensionata la libertà dei
partiti, riducendone il numero, ma non la libertà del
presidente della Repubblica di gestire le crisi di governo e
decidere le eventuali elezioni anticipate. Meno che mai si è
ridisegnato il modello di sovranità popolare accolto in
Costituzione ripudiando i caratteri fondamentali della
democrazia rappresentativa. I presidenti della Repubblica
hanno certo registrato le novità intervenute nella vita
politica con la fine della Prima Repubblica e l’avvento
della democrazia dell’alternanza, e l’hanno fatto prendendo
atto del venir meno di quella formula politica
istituzionalizzata in base alla quale alcuni partiti
potevano stare al governo mentre altri dovevano stare
all’opposizione. Oltre la cosiddetta Costituzione materiale
del bipolarismo non poteva andare e non è andata. Ed è bene
che le cose siano andate così.
Oggi più che mai,infatti, abbiamo
bisogno di riaffermare il valore della Costituzione ed il
ruolo insostituibile dei suoi garanti. I partiti che hanno
fatto la Costituzione e che l’hanno difesa nei difficili
anni della ricostruzione del Paese non ci sono più. Il
rischio che si corre è che la Costituzione e le modifiche
che si vogliono apportare ad essa tendano a fare della legge
fondamentale uno strumento di lotta politica, cioè una
non-Costituzione. Proprio per questa ragione bisogna essere
vigili, rigorosi quando si parla,in un contesto politico
confuso come quello attuale, di modificazioni tacite della
Costituzione. Se vi sono parti o principi della Costituzione
visibilmente datate si facciano le necessarie modifiche, ma
le si facciano non attraverso spallate, bensì nelle forme
previste dalla stessa Costituzione.
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