Le polemiche seguite alla rottura
verificatasi nel Pdl, per la loro durezza, sono destinate a
lasciare un brutto segno nella politica italiana. I duelli
tra i leader, gli scontri combattuti senza esclusione di
colpi tra i partiti non costituiscono una novità nella
storia della Repubblica. Basta pensare agli attacchi a Leone
per le vicende dalla Lockheed,a Donat Cattin per il figlio
terrorista, a Cossiga per le picconate.Si è trattato di
contestazioni talvolta durissime che però riguardavano
responsabilità, vere o presunte, di natura politica. Adesso,
invece, siamo di fronte ad attacchi personali, alla
fabbricazione ed alla diffusione di dossier costruiti a
tavolino allo scopo di ricattare personalità politiche per
condizionarne la stessa libertà di azione. C’è addirittura
chi ha teorizzato la doverosità di tutto ciò parlando di
efficace metodo dissuasivo, il cosiddetto «metodo Boffo».
Boffo, come si ricorderà, era direttore dell’«Avvenire». Il
suo giornale spesso polemizzava con il centro destra. E’
stato costretto alle dimissioni attraverso una martellante
campagna denigratoria che riguardava la sua vita privata.
Ebbene, dopo le dimissioni si è accertato che i materiali
pubblicati erano falsi, tutti costruiti a tavolino.
Siamo
quindi di fronte ad una concezione primitiva della lotta
politica in cui tutto è consentito pur di prevalere. Sono
venute fuori in questi ultimi mesi verità che creano
sconcerto anche nel più disincantato osservatore delle
vicende politiche. Si è saputo di trame e di veri e propri
agguati messi a punto per rovinare «compagni di partito»; di
giornalisti che pubblicavano inchieste lavorando
consapevolmente su carte false; di comitati di affari
costituiti da uomini delle istituzioni e malavitosi per
pilotare appalti ed aggiustare processi.
Si tratta di interferenze, abusi, infedeltà che per il
ruolo dei soggetti coinvolti rischiano di alterare la stessa
struttura del sistema dei poteri pubblici. Non siamo di
fronte insomma ai tradizionali conflitti della politica, ma
ad un serio tentativo di creare apparati paralleli a quelli
legali agendo al riparo di personalità e partiti che hanno
grande seguito nel Paese.
Non è esagerato evocare, a questo proposito, le
articolate filiere, anche istituzionali, attraverso le quali
agiva la P2 e certi personaggi di pecorelliana memoria.
In questo contesto la produzione di dossier a getto
continuo si è rivelata un formidabile strumento per
costruire o distruggere carriere politiche e per
condizionare la stessa evoluzione dei processi politici.
Si è giunti persino alla minaccia preventiva dei dossier
nei confronti di personaggi a cui si consigliava un rapido
ravvedimento.
Di fronte al diffondersi di questo metodo
dell’aggressione alla persona, attraverso la messa in
circolazione di notizie che nulla hanno a che vedere con una
normale competizione politica, di cui è stato vittima in
passato lo stesso premier, si avverte
la necessità di pervenire ad un’autoregolazione della
vita dei partiti. E’ impressionante, infatti, la facilità
con cui malavitosi e faccendieri di ogni tipo riescano ad
infiltrarsi nei partiti ed a trovare udienza anche presso
importanti uomini pubblici.
Sono venuti alla ribalta in occasione della campagna
contro Fini, della scoperta dalla trama che avrebbe dovuto
liquidare Caldoro, delle rivelazioni riguardanti i summit
della cosiddetta P3 nei quali si decidevano opere pubbliche
da realizzare e nomine, personaggi che nei vecchi partiti
non avrebbero potuto mettere piede o che comunque non
avrebbero mai avuto accesso ai piani alti dei palazzi del
potere. Si tratta di soggetti privati che hanno potuto
svolgere impunemente investigazioni, intercettazioni,
pedinamenti o venire a conoscenza di carte in possesso
dell’AG allo scopo di avvantaggiare alcuni uomini politici e
svantaggiarne altri.
I vecchi partiti, quasi tutti, disponevano grazie alla
loro struttura e soprattutto al loro radicamento
territoriale di efficaci anticorpi per prevenire
inquinamenti ed ingerenze capaci di condizionarne le
attività. I nuovi partiti leggeri non hanno di queste
difese, attingendo spesso da folle di tifosi quadri,
dirigenti, amministratori che non hanno spesso alcuna
formazione politica e che vivono l’ingresso in politica come
una opportunità straordinaria per conseguire vantaggi
personali ed immediati e non come scelta di vita. Non
essendoci una comunità organizzata che decide, ciò che paga
è la fedeltà al leader.
Di fronte al diffondersi dei dossier fabbricati a
tavolino a fini di ricatto c’è un solo modo di difendersi.
Bisogna dimostrare con i fatti che il delitto non rende. Lo
devono dimostrare gli organi di informazione non comprando i
dossier spezzatura; cosa che alcune testate già fanno. Lo
devono dimostrare i politici attraverso la stampa di
partito, o comunque amica, fissando dei paletti oltre i
quali la lotta politica non può e non deve andare.
Si impone poi una straordinaria opera di vigilanza da
parte del Parlamento per prevenire devianze e abusi che si
dovessero registrare all’interno di apparati che hanno la
funzione di garantire la sicurezza di tutti e che non
possono operare al servizio di un partito, di un gruppo
politico, di un leader. Ove ciò avvenisse inevitabilmente si
creerebbero ulteriori squilibri nel sistema istituzionale e
si legittimerebbero forme di devianza di corpi dello Stato
che devono rimanere neutrali di fronte al conflitto politico
se non si vuole pervenire all’autodistruzione del sistema
istituzionale. A poco vale denunciare la presunta
politicizzazione della magistratura, se poi ciascuno cerca
di fare deviare a proprio favore gli apparati che è in grado
di dirigere o controllare.
Si è letto da più parti che uomini politici e giornalisti
conoscevano da tempo il contenuto dei dossier che sono stati
messi in circolazione. Se ciò rispondesse al vero si
dovrebbe ritenere che importanti giornali avrebbero agito su
commissione, dimostrando di essere non al servizio dei
propri lettori ma di committenze più o meno occulte. In
questo caso non ci troveremmo di fronte a fenomeni di
scandalismo mediatico, ma ad un giornalismo che si presta a
campagne ricattatorie rispetto alle quali la stessa opinione
pubblica pare priva di reali difese.
Non si può invocare in questi casi la libertà di stampa,
si tratti di giornali di partito, di giornali
fiancheggiatori o di giornali liberi. Chi rovista nella
spazzatura per spezzare carriere politiche o addirittura
delle vite non è un cacciatore di notizie che aiuta i
cittadini a farsi un’idea sulla moralità di chi li governa,
ma è un cacciatore di frodo, come scriveva Merlo su
«Repubblica» qualche giorno fa, che presta la propria opera
al servizio della malapolitica. Non c’è nessun differenza
tra chi ricatta con i dossier abusando del proprio potere
politico o mediatico e la mafia che ricatta con i
pedinamenti dei congiunti ed «avvisando» i servitori dello
Stato non ricattabili. La considerazione sociale che
meritano i costruttori di dossier-spazzatura non dovrebbe
essere diversa da quella che normalmente si riserva ai
ricatti della malavita comune. Questa considerazione certo
condivisa da un un’opinione pubblica che vuole risolti i
problemi da cui dipende la tranquillità sociale, prima fra
tutti il lavoro, dovrebbe essere fatta propria dall’intera
classe politica.
Il premier ha annunciato che darà l’ordine di tregua
perché la guerra dei dossier cessi. C’è da augurarsi che
contestualmente si impegni ad evitare che nuove guerre di
questo tipo, comunque vadano le cose nella sua maggioranza,
possano riaprirsi.
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