Favorire il dialogo culturale in tutte le sue forme tra i paesi della sponda Nord  e quelli della sponda Sud del Mediterraneo.
 
 
 
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Le finalità della Fondazione

 
La Fondazione si propone di agevolare il formarsi di una cultura dello sviluppo nelle regioni più deboli del paese con particolare riferimento alla regione Sicilia. In questo senso occorre creare azioni sinergiche tra le regioni meridionali finalizzate a realizzare in Sicilia efficienti politiche della formazione, nonché a favorire tutte le forme di partecipazione orientate ad una migliore tutela dei diritti. In questo contesto è importante favorire il dialogo culturale in tutte le sue forme tra i paesi della sponda Nord  e quelli della sponda Sud del Mediterraneo, individuando nella Sicilia il territorio ideale per ubicare iniziative culturali che facciano di essa un vero e proprio hub della conoscenza.
 

Gli impegni
     
 

Nel perseguimento dello scopo istituzionale, la fondazione si impegna a:

a) svolgere ricerche e corsi di formazione che mirino a diffondere la cultura della partecipazione consapevole;
b) promuovere attività editoriali limitatamente allo scopo istituzionale;
c) divulgare le proprie iniziative attraverso i mass media e la rete internet;
d) organizzare in Sicilia convegni e incontri a livello nazionale ed internazionale per facilitare il dialogo tra i popoli del mediterraneo;
e) svolgere indagini finalizzate alla migliore conoscenza delle condizioni di vita dei popoli della regione mediterranea;
f) supportare attraverso la documentazione e la ricerca le attività delle istituzioni impegnate negli ambiti in oggetto;
g) diventare membro di altre organizzazioni e stipulare convenzioni con altre istituzioni

 
     
 
 
   
   


 

RELAZIONE INTRODUTTIVA DEL CONVEGNO SUL TEMA:

Giustizia fra risse e riforme

 

Franco Providenti (*)
 

La prima causa di conflitto, deriva dal concreto esercizio del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. L’articolo 112 della Costituzione : stabilisce:“ Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Questa norma comporta l’impossibilità per il P.M. di effettuare qualsiasi scelta prioritaria fra le varie notitiae criminis. Essa  è collegata con il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge sancito dall’art. 3 Cost., ed ha efficacia anche nei confronti della polizia giudiziaria e di qualsiasi pubblico ufficiale che abbia notizia di un reato perseguibile d’ufficio.

Varie Procure della Repubblica hanno ritenuto, in mancanza di risorse sufficienti per affrontare tutte le notizie di reato, di aver il potere di dettare in concreto le priorità di trattazione degli affari penali. Ma può considerarsi legittimo effettuare scelte discrezionali, anche se regolate a priori ?

Nei casi in cui sono state decise delle “scalette di priorità” i Procuratori della Repubblica al fine di garantire trasparenza ed efficacia hanno preventivamente effettuato confronti con una pluralità di soggetti istituzionali, tra cui, oltre che i magistrati addetti all’Ufficio, prefetti, vertici delle Forze di Polizia, rappresentanti delle Comunità territoriali interessate dall’azione di quel singolo ufficio giudiziario, oggi tutti presenti all’interno dei Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica di cui all’art. 20 l. n. 121 del 1981.

Io ritengo che la scelta delle priorità è sempre un atto discrezionale che non può appartenere alla funzione giudiziaria.

Le prime scalette di priorità vennero redatte dal Procuratore di Torino all’inizio degli anni novanta e successivamente da altre Procure. Ricordo che in quegli anni, Giovanni Falcone svolgeva le funzioni di Direttore degli affari penali presso il Ministero di GG, quando era Ministro Martelli. In tale veste, Falcone convocò una riunione consultiva informale, formata da magistrati ed avvocati di sua fiducia, con l’intento di indicare una strada praticabile, rendendosi conto, sia dell’utilità delle iniziative delle Procure, sia delle contraddizioni che le scelte di priorità comportavano. Dalla discussione alla quale partecipai personalmente, ricordo, fu subito chiaro a tutti che il procedimento per la ricerca delle priorità doveva essere necessariamente più complesso, interessare tutte le Procure Generali e concludersi con una proposta al Parlamento, solo legittimato a sancire priorità discrezionali.

La morte di Falcone ha chiuso questo capitolo.

 

2. La separazione funzionale del P. M. dal giudice, non richiede necessariamente una revisione costituzionale. Essa può esaltare le l’imparzialità del giudice e nello stesso tempo, mantenere una disciplina normativa che garantisca le prerogative di autonomia ed indipendenza anche al P. M. La  sentenza n. 37 del 2000 della Corte Costituzionale ha affermato che nonostante la strutturazione della magistratura come un unico ordine soggetto alla potestà organizzativa di un unico Consiglio superiore, non si rinviene un principio costituzionale che «imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni».

L’idea che si possa separare il pubblico ministero dal giudice, dotando il primo di un proprio organo di autogoverno in forza di una disciplina autonoma di assunzione dei magistrati dell’accusa e di uno sviluppo autonomo e separato della loro carriera, non è quindi costituzionalmente vietato, ma pone seriamente il problema di costruire una struttura che garantisca l’indipendenza delle funzioni requirenti che si fondi sull’obbligatorietà  dell’azione penale.

Perché il Pubblico Ministero, non perda la garanzia dell’ “autonomia” che gli è garantita dalla Costituzione è necessario che la separazione delle carriere non comporti la subordinazione del P.M. al Ministro di Grazia e Giustizia, ma che le modalità di gestione della sua carriera e della sua attività professionale siano gestite da un organo indipendente, che può essere un Consiglio Superiore dei Magistrati dell’accusa o una sezione del tutto autonoma dell’attuale Consiglio Superiore.

Contrariamente a chi ritiene sia facile ipotizzare che la separazione delle carriere sospinga il pubblico ministero verso gli organi di Polizia, a cui già è istituzionalmente vicino, con la conseguente reale perdita di garanzie all’interno del processo, ritengo invece, che una delle ragioni per cui la separazione delle carriere può essere opportuna, consista nella necessità di formare dei magistrati dell’accusa, che sappiano gestire il processo nella delicata fase della raccolta delle prove e degli indizi e che sappiano scegliere le fonti di prova da utilizzare. Oggi questa professionalità è carente, o subordinata di fatto agli organi della polizia giudiziaria. Il vero pericolo  per la regolarità del processo è che il P.M. si appiattisca sulle suggestioni e sulle facili certezze   dei denuncianti o della polizia giudiziaria. La notizia data da un informatore anonimo, può essere suggestiva per la polizia, ma per il P.M:  è un tranello da evitare, ben lontano da una testimonianza. Un consiglio Superiore o una sezione autonoma del Consiglio potrebbe costituire un rafforzamento della professionalità dell’accusa.

Il P. M. in questo caso garantirebbe nel processo l’esercizio dell’accusa da parte di un soggetto forte ed indipendente in grado di confrontarsi con la difesa.

La professionalità è oggi  una conquista importante. La prova infatti e la sua ricerca e formazione nel processo è sempre più legata alle nuove tecnologie . Basta pensare alle intercettazioni telefoniche che oggi consentono di verificare seriamente le dichiarazione dei testimoni ed in particolare dei pentiti, ed offrono la possibilità di conoscere in modo diretto ed immediato lo svolgimento dell’attività delittuosa. Sono una risorsa importante che nel nostro paese è applicata con decisione del giudice, ma che altrove è affidata alla polizia. Le intercettazioni, la possibilità di seguire i telefonini, le prove sul DNA etc, sono nuove ed importanti fonti di prova. Altra cosa è la diffusione illegittima di notizie estranee al processo captate occasionalmente e diffuse dagli organi di stampa. E’ quest’ultima attività che va vietata non già le intercettazioni. 

 

3. Il Consiglio Superiore della Magistratura è il luogo della mediazione e del confronto fra il potere legislativo e la magistratura. La composizione dell’organo voluta dalla Costituzione mira, infatti, allo scopo di soddisfare la «esigenza (che fu avvertita dai costituenti) di evitare che l'ordine giudiziario abbia a porsi come un corpo separato» (sent. n. 142 del 1973, n. 5 e 39 del 1974), Questo obiettivo è stato  realizzato dal legislatore costituente mediante accorgimenti idonei ad attuarne e mantenerne una costante saldatura con l'apparato unitario dello Stato, pur senza intaccare le proclamate e garantite autonomia e indipendenza della magistratura. Per questo motivo è stata prevista una composizione del CSM mista con l’elezione da parte delle Camere di un terzo dei componenti e due terzi dalla magistratura. Inoltre è stata attribuita la titolarità dell’azione disciplinare al Ministro della giustizia (sent. n. 142 del 1973; n. 168 del 1963), oltre che al Procuratore Generale della Cassazione. Altresì rilevante è l’attribuzione della Presidenza della Sezione disciplinare ad un membro eletto dal Parlamento.

Un punto debole spesso evidenziato è costituito dal prevalere delle correnti nell’attività di gestione del CSM. In realtà, sorte come luogo di dibattito e di approfondimento sui temi della giustizia, le Correnti oggi hanno assunto un potere di fatto che condiziona le carriere dei singoli magistrati secondo le appartenenze all’una o all’altra organizzazione. Tutto ciò è difficilmente comprensibile in una corretta gestione di una funzione autonoma ed indipendente, svolta nell’interesse del funzionamento della giustizia.

Per limitarne il potere suggerisco la modifica del sistema elettorale con il ritorno al sistema uninominale in base alle funzioni esercitate e rappresentate.

 

4. L'articolo 68 vigente è in vigore dal 14 novembre 1993, essendo stato modificato con la legge costituzionale n. 3 del 29 ottobre 1993 (G.U. n. 256 del 30 ottobre 1993). Prima della revisione costituzionale, per sottoporre un parlamentare a procedimento era necessaria l'autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza. Se la Camera negava l'autorizzazione, il parlamentare non era processabile fino alla fine dell'incarico.

L’articolo 68 nella forma inizialmente prevista dalla Costituzione non stabiliva un privilegio per i parlamentari, ma una “garanzia” nei confronti del parlamento. Conseguentemente la Camera doveva limitarsi ad esaminare l’eventuale prevaricazione del P.M. dai limiti dei suoi poteri, ed assicurarsi che il provvedimento non fosse determinato esclusivamente da un fine persecutorio o da motivi politici. La prassi prevalente ha invece difeso la classe politica privilegiandola rispetto agli altri cittadini.

Nel febbraio del 1996, veniva rafforzato con un decreto attuativo il divieto di utilizzazione di intercettazioni telefoniche non autorizzate dal Parlamento, estendendolo anche a quelle indirette (e cioé conversazioni di un parlamentare con una diversa utenza, regolarmente intercettata).(. caso Cosentino).

 

5. La prescrizione ed  il processo breve

Parte della dottrina processualista propone  di modificare l’attuale struttura della prescrizione del reato che decorre dalla commissione del reato e procede (salvo atti di sospensione o interruzione) verso il termine stabilito per legge per le varie fattispecie di reti.

Si propone di  prevedere due distinti termini di prescrizione: il primo computato dal momento del reato, identifica il tempo in cui si consuma l’interesse alla pretesa punitiva dello Stato; il secondo calcolato dal momento di inizio del processo, determina il tempo in cui deve celebrarsi il processo.       Dal momento, però, dell’esercizio dell’azione penale, il termine “sostanziale” cessa di avere rilievo ed inizia a decorrere un nuovo termine “processuale”, che delimita la durata del giudizio di primo grado fino alla sentenza, non superiore a due anni e così successivamente per gli altri gradi del giudizio.

Ovviamente questa norma non può essere retroattiva, perché finirebbe con eliminare tutti i processi pendenti da più di due anni dalla commissione del reato o dall’inizio dell’azione penale. Si trasformerebbe cioè in una amnistia impropria.

L’iter corretto sarebbe quello di legiferare per i processi che sorgeranno dopo l’entrata in vigore della legge e nello stesso tempo predisporre le misure opportune per accelerare i processi in corso in modo di condurli alla definizione entro i tempi più brevi. Le misure possono consistere nell’’aumento dei giudici, nel rafforzamento delle cancelleria, nella istituzione delle notifiche telematiche, di informatizzazione dei fascicoli, dei registri e degli archivi. Disporre la sospensione dei termini, quando l’udienza è rinviata per legittimo impedimento dell’imputato o del suo difensore, o per rinvii determinati da istanze di ricusazione etc.

Per i processi più vecchi si può pensare di tornare all’esperienza delle sezioni stralcio formate anche da giudici onorari applicati per risolvere l’emergenza. In buona sostanza bisogna pensare ad un pacchetto di riforme organiche e tempestive che consentano la limitazione dei tempi del giudizio senza trasformare la legge in una amnistia emessa con modalità e forme non previste dalla Costituzione.  

 

6. Possibili tentativi di riforme:

Un primo istituto, approfondito dalla dottrina e sperimentato nel processo minorile e nella giustizia penale di pace, è quello della c.d. “irrilevanza penale del fatto”, o meglio della “particolare tenuità dell’offesa”.

Per tutti quei numerosi fatti che, pur tipici, si presentano già ad una prima

delibazione con un contenuto offensivo talmente modesto da non giustificare l’impiego della costosa risorsa del processo, la risposta deve essere la richiesta di archiviazione.

La messa in prova. E’ invece un istituto molto diffuso nei paesi anglosassoni, che in Italia ha avuto una applicazione limitata e particolare per i reati commessi da tossicodipendenti.

In esso, si dovrebbe prevedere che, l’imputato di un reato per il quale è prevista una pena massima di tre o quattro anni di reclusione, possa chiedere al collegio giudicante di accettare un programma elaborato d’intesa con  i servizi sociali, nel quale l’imputato abbia proposto, in alternativa alla possibile pena detentiva, lo svolgimento gratuito, di lavori socialmente utili che abbiano il duplice carattere risarcitorio per la collettività e rieducativo per il presunto colpevole. Il giudice, nel dibattito fra le parti, (P.M. e difesa) valuterà la serietà del programma e deciderà se accogliere la proposta. Se la accoglie il processo si interrompe, e se la prova andrà bene, verrà emessa una sentenza di estinzione del reato. Se andrà male il processo riprenderà e l’imputato sarà (se ritenuto colpevole) condannato alla pena detentiva.

(*) Franco Providenti
già Presidente di sezione della Corte di Cassazione

 
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