La prima causa di conflitto, deriva dal
concreto esercizio del principio dell’obbligatorietà
dell’azione penale. L’articolo 112 della Costituzione :
stabilisce:“ Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di
esercitare l’azione penale”. Questa norma comporta
l’impossibilità per il P.M. di effettuare qualsiasi scelta
prioritaria fra le varie notitiae criminis. Essa è
collegata con il principio di uguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge sancito dall’art. 3 Cost., ed ha efficacia
anche nei confronti della polizia giudiziaria e di qualsiasi
pubblico ufficiale che abbia notizia di un reato
perseguibile d’ufficio.
Varie Procure della Repubblica hanno
ritenuto, in mancanza di risorse sufficienti per affrontare
tutte le notizie di reato, di aver il potere di dettare in
concreto le priorità di trattazione degli affari penali. Ma
può considerarsi legittimo effettuare scelte discrezionali,
anche se regolate a priori ?
Nei casi in cui sono state decise delle
“scalette di priorità” i Procuratori della Repubblica al
fine di garantire trasparenza ed efficacia hanno
preventivamente effettuato confronti con una pluralità di
soggetti istituzionali, tra cui, oltre che i magistrati
addetti all’Ufficio, prefetti, vertici delle Forze di
Polizia, rappresentanti delle Comunità territoriali
interessate dall’azione di quel singolo ufficio giudiziario,
oggi tutti presenti all’interno dei Comitati provinciali per
l’ordine e la sicurezza pubblica di cui all’art. 20 l. n.
121 del 1981.
Io ritengo che la scelta delle priorità
è sempre un atto discrezionale che non può appartenere alla
funzione giudiziaria.
Le prime scalette di priorità vennero
redatte dal Procuratore di Torino all’inizio degli anni
novanta e successivamente da altre Procure. Ricordo che in
quegli anni, Giovanni Falcone svolgeva le funzioni di
Direttore degli affari penali presso il Ministero di GG,
quando era Ministro Martelli. In tale veste, Falcone convocò
una riunione consultiva informale, formata da magistrati ed
avvocati di sua fiducia, con l’intento di indicare una
strada praticabile, rendendosi conto, sia dell’utilità delle
iniziative delle Procure, sia delle contraddizioni che le
scelte di priorità comportavano. Dalla discussione alla
quale partecipai personalmente, ricordo, fu subito chiaro a
tutti che il procedimento per la ricerca delle priorità
doveva essere necessariamente più complesso, interessare
tutte le Procure Generali e concludersi con una proposta al
Parlamento, solo legittimato a sancire priorità
discrezionali.
La morte di Falcone ha chiuso questo
capitolo.
2.
La separazione funzionale del P. M. dal giudice, non
richiede necessariamente una revisione costituzionale. Essa
può esaltare le l’imparzialità del giudice e nello stesso
tempo, mantenere una disciplina normativa che garantisca le
prerogative di autonomia ed indipendenza anche al P. M. La
sentenza n. 37 del 2000 della Corte Costituzionale ha
affermato che nonostante la strutturazione della
magistratura come un unico ordine soggetto alla potestà
organizzativa di un unico Consiglio superiore, non si
rinviene un principio costituzionale che «imponga o al
contrario precluda la configurazione di una carriera unica o
di carriere separate fra i magistrati addetti
rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle
requirenti, o che impedisca di limitare o di condizionare
più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato,
nel corso della sua carriera, dalle une alle altre
funzioni».
L’idea che si possa separare il
pubblico ministero dal giudice, dotando il primo di un
proprio organo di autogoverno in forza di una disciplina
autonoma di assunzione dei magistrati dell’accusa e di uno
sviluppo autonomo e separato della loro carriera, non è
quindi costituzionalmente vietato, ma pone seriamente il
problema di costruire una struttura che garantisca
l’indipendenza delle funzioni requirenti che si fondi
sull’obbligatorietà dell’azione penale.
Perché il Pubblico Ministero, non perda
la garanzia dell’ “autonomia” che gli è garantita dalla
Costituzione è necessario che la separazione delle carriere
non comporti la subordinazione del P.M. al Ministro di
Grazia e Giustizia, ma che le modalità di gestione della sua
carriera e della sua attività professionale siano gestite da
un organo indipendente, che può essere un Consiglio
Superiore dei Magistrati dell’accusa o una sezione del tutto
autonoma dell’attuale Consiglio Superiore.
Contrariamente a chi ritiene sia facile
ipotizzare che la separazione delle carriere sospinga il
pubblico ministero verso gli organi di Polizia, a cui già è
istituzionalmente vicino, con la conseguente reale perdita
di garanzie all’interno del processo, ritengo invece, che
una delle ragioni per cui la separazione delle carriere può
essere opportuna, consista nella necessità di formare dei
magistrati dell’accusa, che sappiano gestire il processo
nella delicata fase della raccolta delle prove e degli
indizi e che sappiano scegliere le fonti di prova da
utilizzare. Oggi questa professionalità è carente, o
subordinata di fatto agli organi della polizia giudiziaria.
Il vero pericolo per la regolarità del processo è che il
P.M. si appiattisca sulle suggestioni e sulle facili
certezze dei denuncianti o della polizia giudiziaria. La
notizia data da un informatore anonimo, può essere
suggestiva per la polizia, ma per il P.M: è un tranello da
evitare, ben lontano da una testimonianza. Un consiglio
Superiore o una sezione autonoma del Consiglio potrebbe
costituire un rafforzamento della professionalità
dell’accusa.
Il P. M. in questo caso garantirebbe
nel processo l’esercizio dell’accusa da parte di un soggetto
forte ed indipendente in grado di confrontarsi con la
difesa.
La professionalità è oggi una
conquista importante. La prova infatti e la sua ricerca e
formazione nel processo è sempre più legata alle nuove
tecnologie . Basta pensare alle intercettazioni telefoniche
che oggi consentono di verificare seriamente le
dichiarazione dei testimoni ed in particolare dei pentiti,
ed offrono la possibilità di conoscere in modo diretto ed
immediato lo svolgimento dell’attività delittuosa. Sono una
risorsa importante che nel nostro paese è applicata con
decisione del giudice, ma che altrove è affidata alla
polizia. Le intercettazioni, la possibilità di seguire i
telefonini, le prove sul DNA etc, sono nuove ed importanti
fonti di prova. Altra cosa è la diffusione illegittima di
notizie estranee al processo captate occasionalmente e
diffuse dagli organi di stampa. E’ quest’ultima attività che
va vietata non già le intercettazioni.
3.
Il Consiglio Superiore della Magistratura è il luogo
della mediazione e del confronto fra il potere legislativo e
la magistratura. La composizione dell’organo voluta dalla
Costituzione mira, infatti, allo scopo di soddisfare la
«esigenza (che fu avvertita dai costituenti) di evitare che
l'ordine giudiziario abbia a porsi come un corpo separato»
(sent. n. 142 del 1973, n. 5 e 39 del 1974), Questo
obiettivo è stato realizzato dal legislatore costituente
mediante accorgimenti idonei ad attuarne e mantenerne una
costante saldatura con l'apparato unitario dello Stato, pur
senza intaccare le proclamate e garantite autonomia e
indipendenza della magistratura. Per questo motivo è stata
prevista una composizione del CSM mista con l’elezione da
parte delle Camere di un terzo dei componenti e due terzi
dalla magistratura. Inoltre è stata attribuita la titolarità
dell’azione disciplinare al Ministro della giustizia (sent.
n. 142 del 1973; n. 168 del 1963), oltre che al Procuratore
Generale della Cassazione. Altresì rilevante è
l’attribuzione della Presidenza della Sezione disciplinare
ad un membro eletto dal Parlamento.
Un punto debole spesso evidenziato è
costituito dal prevalere delle correnti nell’attività di
gestione del CSM. In realtà, sorte come luogo di dibattito e
di approfondimento sui temi della giustizia, le Correnti
oggi hanno assunto un potere di fatto che condiziona le
carriere dei singoli magistrati secondo le appartenenze
all’una o all’altra organizzazione. Tutto ciò è
difficilmente comprensibile in una corretta gestione di una
funzione autonoma ed indipendente, svolta nell’interesse del
funzionamento della giustizia.
Per limitarne il potere suggerisco la
modifica del sistema elettorale con il ritorno al sistema
uninominale in base alle funzioni esercitate e
rappresentate.
4.
L'articolo 68 vigente è in vigore dal 14 novembre 1993,
essendo stato modificato con la legge costituzionale n. 3
del 29 ottobre 1993 (G.U. n. 256 del 30 ottobre 1993). Prima
della revisione costituzionale, per sottoporre un
parlamentare a procedimento era necessaria l'autorizzazione
a procedere della Camera di appartenenza. Se la Camera
negava l'autorizzazione, il parlamentare non era
processabile fino alla fine dell'incarico.
L’articolo 68 nella forma inizialmente
prevista dalla Costituzione non stabiliva un privilegio per
i parlamentari, ma una “garanzia” nei confronti del
parlamento. Conseguentemente la Camera doveva limitarsi ad
esaminare l’eventuale prevaricazione del P.M. dai limiti dei
suoi poteri, ed assicurarsi che il provvedimento non fosse
determinato esclusivamente da un fine persecutorio o da
motivi politici. La prassi prevalente ha invece difeso la
classe politica privilegiandola rispetto agli altri
cittadini.
Nel febbraio del 1996, veniva
rafforzato con un decreto attuativo il divieto di
utilizzazione di intercettazioni telefoniche non autorizzate
dal Parlamento, estendendolo anche a quelle indirette (e
cioé conversazioni di un parlamentare con una diversa
utenza, regolarmente intercettata).(. caso Cosentino).
5. La
prescrizione ed il processo breve
Parte della dottrina processualista
propone di modificare l’attuale struttura della
prescrizione del reato che decorre dalla commissione del
reato e procede (salvo atti di sospensione o interruzione)
verso il termine stabilito per legge per le varie
fattispecie di reti.
Si propone di prevedere due distinti
termini di prescrizione: il primo computato dal momento del
reato, identifica il tempo in cui si consuma l’interesse
alla pretesa punitiva dello Stato; il secondo calcolato dal
momento di inizio del processo, determina il tempo in cui
deve celebrarsi il processo. Dal momento, però,
dell’esercizio dell’azione penale, il termine “sostanziale”
cessa di avere rilievo ed inizia a decorrere un nuovo
termine “processuale”, che delimita la durata del giudizio
di primo grado fino alla sentenza, non superiore a due anni
e così successivamente per gli altri gradi del giudizio.
Ovviamente questa norma non può essere
retroattiva, perché finirebbe con eliminare tutti i processi
pendenti da più di due anni dalla commissione del reato o
dall’inizio dell’azione penale. Si trasformerebbe cioè in
una amnistia impropria.
L’iter corretto sarebbe quello di
legiferare per i processi che sorgeranno dopo l’entrata in
vigore della legge e nello stesso tempo predisporre le
misure opportune per accelerare i processi in corso in modo
di condurli alla definizione entro i tempi più brevi. Le
misure possono consistere nell’’aumento dei giudici, nel
rafforzamento delle cancelleria, nella istituzione delle
notifiche telematiche, di informatizzazione dei fascicoli,
dei registri e degli archivi. Disporre la sospensione dei
termini, quando l’udienza è rinviata per legittimo
impedimento dell’imputato o del suo difensore, o per rinvii
determinati da istanze di ricusazione etc.
Per i processi più vecchi si può
pensare di tornare all’esperienza delle sezioni stralcio
formate anche da giudici onorari applicati per risolvere
l’emergenza. In buona sostanza bisogna pensare ad un
pacchetto di riforme organiche e tempestive che consentano
la limitazione dei tempi del giudizio senza trasformare la
legge in una amnistia emessa con modalità e forme non
previste dalla Costituzione.
6.
Possibili tentativi di riforme:
Un primo istituto, approfondito dalla
dottrina e sperimentato nel processo minorile e nella
giustizia penale di pace, è quello della c.d. “irrilevanza
penale del fatto”, o meglio della “particolare tenuità
dell’offesa”.
Per tutti quei numerosi fatti che, pur
tipici, si presentano già ad una prima
delibazione con un contenuto offensivo
talmente modesto da non giustificare l’impiego della costosa
risorsa del processo, la risposta deve essere la richiesta
di archiviazione.
La messa in prova. E’ invece un
istituto molto diffuso nei paesi anglosassoni, che in Italia
ha avuto una applicazione limitata e particolare per i reati
commessi da tossicodipendenti.
In esso, si dovrebbe prevedere che,
l’imputato di un reato per il quale è prevista una pena
massima di tre o quattro anni di reclusione, possa chiedere
al collegio giudicante di accettare un programma elaborato
d’intesa con i servizi sociali, nel quale l’imputato abbia
proposto, in alternativa alla possibile pena detentiva, lo
svolgimento gratuito, di lavori socialmente utili che
abbiano il duplice carattere risarcitorio per la
collettività e rieducativo per il presunto colpevole. Il
giudice, nel dibattito fra le parti, (P.M. e difesa)
valuterà la serietà del programma e deciderà se accogliere
la proposta. Se la accoglie il processo si interrompe, e se
la prova andrà bene, verrà emessa una sentenza di estinzione
del reato. Se andrà male il processo riprenderà e l’imputato
sarà (se ritenuto colpevole) condannato alla pena detentiva.
(*) Franco Providenti
già Presidente di sezione della Corte di Cassazione |